mercoledì 10 agosto 2016

Hume e Locke


HUME



David Hume nacque nel 1711 a Edimburgo, dove studiò giurisprudenza. Ma i suoi interessi erano rivolti alla filosofia e alla letteratura. Dopo si recò in Francia, dove rimase tre anni a proseguire i suoi studi. In questo periodo compose la prima e fondamentale sua opera, il Trattato sulla natura umana. Ebbe diversi incarichi politici, che lo portarono nelle ambasciate militari presso le corti di Vienna e di Torino.

La “scienza” della natura umana

L’obiettivo della filosofia di Hume è quello di costruire una scienza della natura umana su base sperimentale, che possa offrire un’analisi sistematica. Questa scelta empiristica finirà per mettere capo a una forma di scetticismo nel quale le pretese conoscitive della natura umana risultano fortemente limitate.

Il percorso della conoscenza

Impressioni e idee
Nella sua analisi della conoscenza umana, Hume divide le percezioni della mente in due classi:
·         Impressioni, cioè le percezioni che penetrano con maggior forza ed evidenza nella coscienza e sono tutte le sensazioni
·         Idee, cioè le immagini illanguidite di queste impressioni
Però la differenza fondamentale fra le due consiste nella loro forza, infatti, l’idea non può mai raggiungere la forza dell’impressione. Inoltre ogni idea deriva dalla corrispondente impressione e non esistono idee o pensieri di cui non si sia avuta precedentemente l’impressione. L’uomo può senza dubbio comporre le idee nei modi più arbitrari e fantastici, e spingersi con il pensiero fino agli estremi limiti dell’universo; ma non farà mai realmente un passo al di là di se stesso, perché non avrà mai in suo possesso altra specie di realtà che quella delle sue impressioni. Solo Hume risolve totalmente la realtà nel molteplice delle idee attuali e nulla ammette al di là di esse. Per spiegare la realtà del mondo e dell’io, egli non ha a sua disposizione le impressioni, le idee e i loro rapporti. Ogni realtà deve per lui risolversi nei rapporti con cui si connettono tra loro le impressioni e le idee. Hume dunque nega l’esistenza delle idee astratte, cioè idee che non abbiano caratteri particolari: esistono unicamente idee particolari, assunte come segni di altre idee particolari a esse simili. Per spiegare la funzione del segno, Hume ricorre a un principio di cui si servirà largamente in tutte le sue analisi: l’abitudine. Si forma così in noi l’abitudine di considerare in qualche modo unite tra loro le idee designate da un unico nome; sicché il nome stesso risveglierà in noi non una sola di quelle idee, ma l’abitudine che abbiamo di considerarle assieme. La funzione puramente logica del segno concettuale diventa in Hume un fatto psicologico, un’abitudine.  
Il principio di associazione
La facoltà di stabilire relazioni tra idee è detta immaginazione. Essa non risulta completamente affidata al caso. Questa connessione è garantita da una forza che rappresenta ciò che la forza di gravità rappresenta per la natura. Tale è il cosiddetto principio di associazione delle idee, che Hume descrive come “una dolce forza che comunemente s’impone”. Questa “dolce forza” di attrazione opera secondo tre criteri fondamentali: la somiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la casualità. Hume ritiene che l’associazione stia alla base di quelle che Locke chiama “idee complesse”. Tra queste idee le più importanti sono quelle di spazio, di tempo, di causa ed effetto, di sostanza. Lo spazio e il tempo non sono “impressioni”, ma “maniere di sentirele impressioni, ovvero modi con cui le impressioni si “dispongono” dinnanzi allo spirito.
Proposizioni che concernono relazioni tra idee e proposizioni che concernono dati di fatto
Hume distingue le proposizioni:
·         che concernono relazioni tra idee: sono proposizioni che noi costruiamo basandoci semplicemente sul principio di non-contraddizione. Tali proposizioni sono dette analitiche, in quanto il predicato è già implicitamente contenuto nel soggetto, dal quale può venire razionalmente ricavato per via di analisi. Le proposizioni che concernono relazioni tra idee hanno quindi in se stesse la loro validità.
·         che concernono fatti: non sono fondate sul principio di non-contraddizione, bensì sull’esperienza, giacchè il contrario di un fatto è sempre possibile e “ogni cosa che è, può non essere”.
L’analisi critica del principio di causalità
Tutti i ragionamenti che riguardano realtà o fatti si fondano sul rapporto causa-effetto. La tesi fondamentale di Hume è che la relazione tra causa ed effetto non può mai essere conosciuta a priori, cioè con il puro ragionamento, ma soltanto per esperienza. Nessuno, messo di fronte a un oggetto che per lui sia nuovo, è in grado di scoprire le sue cause e i suoi effetti prima di averli sperimentati e soltanto ragionando su di essi. Questo significa che la connessione tra causa ed effetto, anche dopo che è stata scoperta per esperienza, rimane arbitraria e priva di qualsiasi necessità oggettiva. Anche dopo l’esperienza è stata fatta, la connessione tra la causa e l’effetto rimane infatti arbitraria e non potrebbe essere assunta come fondamento in nessuna previsione e in nessun ragionamento sul futuro. Tutto ciò che “impariamo” dall’esperienza è che da cause che ci appaiono simili ci aspettiamo effetti simili. Ma questa “attesa” non è giustificato dall’esperienza, essendo piuttosto il presupposto ingiustificabile dell’esperienza. Se ci fosse anche solo qualche sospetto che il corso della natura potesse cambiare e che il passato non servisse da regola per il futuro, ogni esperienza diverrebbe inutile e non potrebbe dare origine ad alcuna inferenza o conclusione. Queste considerazioni di Hume escludono che il legame tra causa ed effetto possa essere dimostrato come oggettivamente necessario, cioè come assolutamente valido. La necessità di tale legame è quindi puramente soggettiva e va cercata in un principio della natura umana. La ripetizione di un atto qualsiasi, a lungo andare, produce nell’uomo la disposizione a ripetere lo stesso atto senza che intervenga il ragionamento: questa disposizione è l’abitudine. Ma l’abitudine spiega la congiunzione che noi stabiliamo tra i fatti, non la loro connessione necessaria. Spiega “perché” noi crediamo alla necessità dei legami causali, ma non giustifica, né fonda questa necessità. L’abitudine è una guida infallibile per la pratica della vita, ma non è un principio di giustificazione razionale o filosofico.
La credenza nel mondo esterno e nell’identità dell’io
Ogni credenza riguardante realtà o fatti, in quanto risultato di un’abitudine, è un sentimento o un istinto, non un atto di ragione. Tutta la conoscenza della realtà rientra nel dominio della probabilità. Con questo Hume intende “salvare” la differenza esistente tra la credenza e la finzione. La prima, infatti, è un sentimento naturale, che non soggiace ai poteri dell’intelletto. Se dipendesse dall’intelletto o dalla ragione, allora potremmo credere qualunque cosa, poiché l’intelletto ha pieni poteri sulle sue idee. La credenza è quindi riconducibile alla maggiore vivacità che le impressioni possiedono rispetto alle idee. Gli uomini credono abitualmente nell’esistenza di un mondo esterno, in quale viene “creduto” diverso ed estraneo rispetto alle impressioni che se ne hanno. Hume comincia con il distinguere la credenza nell’esistenza continua delle cose, che è propria di tutti gli uomini e anche degli animali, dalla credenza nell’esistenza esterna delle cose, la quale suppone la distinzione semi-filosofica o pseudo-filosofica delle cose dalle impressioni sensibili. Per quanto riguarda la prima, Hume osserva che dalla coerenza e dalla costanza di certe impressioni l’uomo è tratto a immaginare che esistano cose dotate di un’esistenza continua e ininterrotta. La coerenza e la costanza di certi gruppi di impressioni ci fa dimenticare, o trascurare, che le nostre impressioni sono sempre interrotte e discontinue, e ce le fa considerare come riunite in oggetti persistenti e stabili. La credenza nella permanenza delle cose appartiene alla parte irriflessiva e a-filosofica del genere umano ed è presto distrutta dalla riflessione filosofica, la quale insegna che ciò che si presenta alla mente è soltanto l’immagine e la percezione dell’oggetto. Con ragionamenti analoghi a questo, la riflessione filosofica conduce a distinguere le percezioni, soggettive, mutevoli e interrotte, dalle cose, oggettive ed esternamente e continuamente esistenti. In verità la sola realtà di cui siamo certi è costituita dalle percezioni; le sole inferenze che possiamo fare sono quelle fondate sul rapporto di causa ed effetto. Una realtà che sia diversa dalle percezioni ed esterna a esse non si può affermare né sulla base delle impressioni dei sensi, né sulla base del rapporto causale. La realtà esterna è dunque ingiustificabile, ma l’istinto a credere in essa è ineliminabile. Una spiegazione analoga trova la credenza nell’unità e identità dell’io. Infatti, secondo Hume, noi non facciamo alcuna esperienza, né abbiamo alcuna “impressione” del nostro “io”, ma solo dei nostri stati d’animo successivi, che “compaiono” nella nostra coscienza come in una specie di teatro. Ciò che noi sperimentiamo come “io” è soltanto un fascio di impressioni che si susseguono nel tempo.     



LOCKE



Locke fu il fondatore del cosiddetto empirismo inglese, ossia di quella corrente della filosofia moderna, che si sviluppa a cavallo tra Seicento e Settecento. L’empirismo si innesta nella tradizione del pensiero inglese e rappresenta un punto di incontro di tale tradizione con il cartesianesimo e con la rivoluzione scientifica. L’empirismo risulta caratterizzato dalla teoria della ragione come insieme di poteri limitati dall’esperienza, intesa come fonte e origine del processo conoscitivo, e come criterio di verità. Mentre il primo aspetto riconnette l’empirismo a tutta la tradizione anti-innatistica della filosofia occidentale, il secondo aspetto viene fatto valere in tutta la sua forza e coerenza solo da Hume. Il richiamo costante all’esperienza fa sì che l’empirismo tenda ad assumere un atteggiamento limitativo o critico nei confronti delle possibilità conoscitive dell’uomo e a seguire un indirizzo anti-metafisico, che escluse dalla filosofia e da ogni ricerca legittima i problemi riguardanti la realtà che non sono accessibili agli strumenti mentali di cui l’uomo dispone. Dall’empirismo inglese, scaturisce quel concetto della filosofia come analisi del mondo umano, nei suoi vari campi, che sarà proprio dell’Illuminismo. Nel 1687 furono pubblicati i Principi matematici di Newton. Nel 1690 comparve il Saggio sull’intelletto umano di Locke.
Locke: la vita e le opere
Nato nel 1632 a Wrington, John Locke visse la sua giovinezza in un periodo turbinoso della storia inglese, segnato dalla prima rivoluzione e dalla decapitazione del re. Studio all'Università di Oxford, consegui il grado di Maestro delle arti e fu chiamato a insegnare nella stessa Università di Oxford. Cominciò allora il più importante della sua formazione. La maggiore influenza fu esercitata su di lui dalle opere di Cartesio; ma egli studiò anche Hobbes e probabilmente Gassendi. Cominciò ad occuparsi di studi naturali e di medicina, e fu chiamato dagli amici "dottor Locke”. Cominciò il periodo più intenso della sua attività letteraria, con la Lettera sulla tolleranza, i Due trattati sul governo e il Saggio sull'intelletto umano.

Ragione ed esperienza

Per Locke la ragione non possiede nessuno di quei caratteri che Cartesio le aveva attribuito: non è unica o uguale in tutti gli uomini, perchè essi ne partecipano in misura diversa; non è infallibile, perchè spesso le idee di cui dispone sono in numero troppo limitato o sono oscure; inoltre la ragione non può ricavare da se idee e principi, ma deve ricavarli dall'esperienza, che ha sempre limiti e condizioni. La ragione è comunque l'unica guida efficace di cui l'uomo dispone e l'intera opera di Locke è diretta a estendere il campo del sua azione a tutto ciò che interessa l'uomo. La stessa idea dell'opera maggiore di Locke, il Saggio sull'intelletto umano, nasce dal bisogno di affrontare problemi non strettamente filosofici. Da allora Locke iniziò il lavoro per il Saggio. E in quel momento nacque la prima indagine critica della filosofia moderna, cioè la prima indagine diretta a stabilire le effettive possibilità umane, con il riconoscimento dei limiti che sono propri dell'uomo. Questi limiti sono propri dell'uomo perchè sono propri della sua ragione; ma sono propri della sua ragione perchè essa deve fare i conti con l'esperienza. È l’esperienza, infatti, che fornisce alla ragione il materiale che essa adopera, e cioè le idee semplici, che sono gli “elementi" di ogni sapere umano. La ragione forma idee complesse e ragionamenti; ma anche in questa attività deve essere controllata dall’esperienza. Se controllata dall'esperienza, la ragione impedisce all'uomo di avventurarsi in problemi che sono al di là delle sue capacità.

Le idee semplici e la passività della mente

Locke desume da Cartesio il punto di partenza della sua indagine: l’oggetto della nostra conoscenza è l’idea. Locke introduce la prima fondamentale limitazione rispetto l cartesianesimo: le idee derivano esclusivamente dall’esperienza, cioè sono il frutto della sua passività di fronte alla realtà. E poiché per l’uomo la realtà o è realtà esterna (le cose naturali) o è realtà interna (il suo spirito), le idee possono derivare dall’una o dall’altra di queste realtà e si chiameranno idee di sensazione se derivano dal senso esterno e idee di riflessione se derivano dal senso interno. Sono idee di sensazione, o più semplicemente sensazioni, il giallo, il caldo, il duro, l’amore e, in generale, tutte le qualità che attribuiamo alle cose. Sono idee di riflessione la percezione, il pensiero, il dubbio, il ragionamento, la conoscenza e, in generale, tutte le idee che si riferiscono a operazioni del nostro spirito. Locke si mantiene fedele al principio cartesiano secondo il quale avere un’idea significa percepirla, cioè esserne cosciente, ma di questo principio si avvale proprio nella critica dell’innatismo. Questa critica si riduce sostanzialmente a un unico argomento. Le idee non ci sono quando non sono pensate; giacchè, per l’idea, esistere significa essere pensata. Le idee innate dovrebbero esistere in tutti gli uomini, quindi anche nei bambini, negli idioti e nei “selvaggi”; ma poiché da queste persone non sono pensate, esse non esistono in loro, perciò non possono considerarsi innate. Se tutta la nostra conoscenza risulta di idee e se le idee derivano dall'esperienza, l'analisi della nostra capacità conoscitiva dovrà in primo luogo fornire una classificazione di tutte le idee che l'esperienza ci fornisce. L'esperienza ci fornisce soltanto idee semplici; le idee complesse sono prodotte dal nostro spirito mediante la riunione di varie idee semplici. Ma neppure l'intelletto più potente può inventare o creare un'idea semplice nuova, cioè non derivante dall'esperienza. Questo è il limite insuperabile dell'intelletto umano. Per ciò che riguarda le idee di sensazione, Locke distingue tra le sensazioni da una parte e le qualità delle cose che le producono in noi dall'altra, e a questo proposito riprende la distinzione tra qualità oggettive e qualità soggettive già elaborata da Galileo e Cartesio. Locke chiama dunque qualità originarie o primarie quelle oggettive, che egli definisce anche «reali», intendendo affermare che esistono "realmente la nei corpi, a prescindere dal fatto che vengano o meno percepite; e qualità secondarie quelle soggettive, che sussistono finche c'è un soggetto che le percepisce

L’attività della mente

Se nel ricevere le idee semplici lo spirito è puramente passivo, esso diventa invece attivo nel servirsi di tali idee come di un materiale per le sue costruzioni, cioè nel riunire e organizzare in vario modo le idee semplici. Questa attività dello spirito può dar luogo a idee complesse e a idee generali. Le idee complesse si lasciano ricondurre a tre categorie fondamentali: i modi,  che sono quelle idee non considerate sussistenti di per se, ma solo come manifestazioni di una sostanza (gratitudine, delitto);  le sostanze, che sono le idee complesse che vengono considerate come esistenti di per se (uomo, cane); le relazioni, che sono le idee che scaturiscono dal mettere a confronto più idee, istituendo tra esse un rapporto. Di tutti questi tipi di idee complesse Locke si ferma a considerare le forme principali. La sua analisi risulta particolarmente importante per ciò che concerne l'idea complessa di sostanza. Considerando che varie idee semplici sono costantemente unite tra loro,la nostra mente è portata inavvertitamente a considerarle come un'unica idea semplice; e poichè non arriva a immaginare come un'idea semplice possa sussistere di per se, si abitua a supporre un qualche substratum che ne sia la base. Ciò vale sia per la sostanza corporea, sia per la sostanza spirituale: la prima è il substrato sconosciuto delle qualità sensibili, la seconda è il substrato altrettanto sconosciuto delle operazioni dello spirito. Tra le idee complesse ci sono anche quelle di relazione, che indicano le cose che sono poste in relazione. Tra le relazioni sono fondamentali quelle di causa ed effetto, di identità e di diversità. Egli scorge questa identità nella coscienza che accompagna gli stati o i pensieri che si succedono nel senso interno. A tutte le sue sensazioni e percezioni si accompagna la consapevolezza che è il suo io a sentire o a percepire. Per quanto riguarda invece la formazione di idee generali, queste non in dicano alcuna realtà, ma sono soltanto segni di un insieme di cose particolari. I nomi generali sono dunque segni di idee generali; ma le idee generali sono a loro volta segni di gruppi di cose particolari. Alle idee generali non corrisponde pertanto alcuna realtà generale o universale, ma soltanto un certo rapporto di somiglianza tra le cose particolari, che sono le sole esistenti. Per la maggior parte dei pensatori precedenti il linguaggio era arbitrario solo nel senso che il significante (il nome) era considerato un segno convenzionale. A  questa arbitrarietà del significante Locke aggiunge quella del significato, cioè dello schema di mediazione tra i nomi e le cose. Affermando infatti che anche l'idea generale è un segno convenzionale, il filosofo "sgancia' non solo il linguaggio, ma anche la conoscenza dal
la realtà effettiva. La natura offre similitudini: i generi e le specie non sono ambiti o strutture dell'essere, ma strumenti classificatori. La dottrina della conoscenza si riduce cosi, nella prospettiva lockiana, a semiotica, ovvero a dottrina dei segni.

La conoscenza e le sue forme

L’esperienza fornisce il materiale della conoscenza, che consiste nella percezione di un accordo o di un disaccordo delle idee tra loro. La conoscenza può essere di due specie diverse. È conoscenza intuitiva quando l'accordo o il disaccordo di due idee è visto immediata e questa conoscenza è la più certa che l'uomo possa raggiungere ed è quindi il fondamento della certezza e dell'evidenza di ogni altra conoscenza. Si tratta invece di conoscenza dimostrativa quando l'accordo o il disaccordo tra due idee non è percepito immediatamente, ma viene reso evidente mediante l'uso di idee intermedie che si chiamano "prove”. La conoscenza dimostrativa consiste evidentemente in una catena di conoscenze intuitive. Accanto a queste due specie di conoscenza, ce n'è anche un'altra, che è la conoscenza delle cose esistenti al di fuori delle idee, secondo la quale la conoscenza è vera solo se c'è una conformità tra le idee e le cose reali. Ci sono tre ordini di realtà: l'io, Dio e le cose; e ci sono tre modi di giungere alla certezza di queste tre realtà:  dell'esistenza del nostro io attraverso l'intuizione; dell'esistenza di Dio attraverso la dimostrazione;  dell’esistenza delle cose attraverso la sensazione.  Per ciò che riguarda l’esistenza dell’io, Locke si avvale del procedimento cartesiano. Io penso e con ciò intuisco la mia propria esistenza e non posso dubita di essa. Perciò che riguarda l'esistenza di Dio, Locke rielabora la prova causale (o prova ontologica a posteriori) della tradizione nulla: se qualcosa c’è, vuol dire che è stato prodotto da un’altra cosa e dunque si deve ammettere un essere eterno che ha prodotto ogni cosa. Quanto all’esistenza delle cose, l’uomo non ha altro mezzo di conoscerla tranne che la sensazione, e precisamente la sensazione attuale. Il fatto che noi riceviamo attualmente l'idea dall'esterno ci fa conoscere che qualcosa esiste in questo momento fuori di noi e produce in noi l'idea. Nel momento in cui noi riceviamo una sensazione, siamo certi che esiste la cosa che la produce in noi; e questa certezza basta, secondo Locke, a garantire la realtà della cosa esterna. La certezza che la sensazione attuale ci dà dell'esistenza delle cose esterne pur non essendo assoluta, è sufficiente per tutti gli scopi umani. Locke, tuttavia, ritiene che essa possa essere confermata da alcune ragioni supplementari: le idee vengono a mancarci quando ci manca l'organo di senso adeguato; le idee sono prodotte nel nostro spirito senza che noi le possiamo evitare; molte idee sono prodotte in noi con piacere o con dolore, mentre quando sono soltanto ricordate non sono più accompagnate da piacere o da dolore; i sensi si offrono testimonianza reciproca, ad esempio il tatto e la vista confermano l’esistenza di una cosa e così rafforzano la certezza dell’esistenza delle cose. Ma queste ragioni valgono soltanto per l’istante in cui la sensazione è ricevuta. Quando l'oggetto non è più testimoniato dai sensi, la certezza della sua esistenza sparisce ed è sostituita da una semplice probabilità.
Perciò Locke, accanto al dominio della conoscenza certa, che è limitato all'intuizione, alla dimostrazione e alla sensazione attuale, ammette il dominio della conoscenza probabile, che è assai più esteso. Conoscenza probabile è quella nella quale si afferma la verità o la falsità di una proposizione non già per la sua evidenza, ma per la sua conformità con l'esperienza passata o con la testimonianza di altri uomini. La conoscenza certa e quella probabile costituiscono il dominio della ragione. Dalla ragione si distingue la fede, che è fondata soltanto sulla rivelazione. La ragione rimane tuttavia il criterio della stessa fede, perchè solo essa può decidere dell'attendibilità e del valore della rivelazione.

La politica

Il diritto naturale
Locke affermava il carattere razionale o dimostrativo dell'etica, in quanto sosteneva che non si può proporre alcuna regola morale di cui non si sappia dar ragione; che la ragione di tali regole dovrebbe essere la loro utilità per la conservazione della società e per la felicità pubblica; che nella disparità delle regole morali nei differenti gruppi in cui l’umanità si divide, occorrerebbe isolare e raccomandare quelle che si rivelano veramente efficaci a questo scopo.  Nel dominio del pensiero politico e religioso, invece, Locke ci ha lasciato contributi fondamentali: la Lettera sulla tolleranza, i Due trattati sul governo e la raccolta di scritti sulla Ragionevolezza del cristianesimo.  Queste opere fanno di Locke il fondatore del liberalismo moderno, cioè uno dei primi e più efficaci difensori delle libertà dei cittadini, della tolleranza religiosa e della libertà delle Chiese.  L'affermazione dell'esistenza di una legge di natura che è la ragione stessa in quanto ha per oggetto i rapporti tra gli uomini e che prescrive la reciprocità perfetta di tali rapporti. Anche per Locke, come per Hobbes, lo stato di natura è caratterizzato da una condizione di uguaglianza di tutti gli uomini, ma mentre per Hobbes si tratta di un uguaglianza di forza, per Locke si tratta di un'uguaglianza di diritti: tutti hanno l'identico diritto di disporre di se stessi e dei propri beni. Nello stato di natura ogni uomo è dunque perfettamente libero.  La legge di natura è una legge della ragione, ma non nel senso che indica all'uomo come conseguire il vantaggio della sopravvivenza, bensì nel senso che rivela a tutti gli uomini,in quanto ugualmente dotati di ragione, alcuni limiti invalicabili. Il diritto naturale dell'uomo è dunque limitato alla propria persona: alla propria vita, alla propria libertà e alla proprietà. Ognuno può e deve reagire in modo proporzionato alle offese, assumendo il ruolo del giudice che risarcisce un danno con una giusta pena. Ma neppure questo diritto autorizza l'uso di una forza assoluta o arbitraria, ma solo quella reazione che la ragione indica come proporzionata alla trasgressione.
Stato e libertà
Per Locke, lo stato di natura non è necessariamente, come voleva Hobbes, uno stato di guerra, bensì una condizione di pacifica coesistenza. Ma può diventare uno stato di guerra quando una o più persone ricorrono alla forza. Proprio per evitare questo stato di guerra, gli uomini si pongono in società e abbandonano lo stato di natura. Ma la costituzione di un potere civile non toglie agli uomini i diritti di cui godevano nello stato di natura. Se la libertà naturale consiste per l'uomo nell'essere limitato soltanto dalla legge di natura, la libertà dell'uomo nella società consiste nel non sottostare.  Il potere civile è scelto dagli stessi cittadini e, quindi, nello stesso tempo è un atto e una garanzia di libertà dei cittadini medesimi.
Pertanto la legge di natura non implica, ma esclude che il contratto che dà origine a una comunità civile legittimi un potere assoluto o illimitato. L'uomo, che non possiede alcun potere sulla propria vita, non può, con un contratto, rendersi schiavo di un altro.

Tolleranza e ragione

La Lettera sulla tolleranza è uno dei più solidi monumenti elevati alla libertà di coscienza. Nella Lettera Locke mette a confronto lo Stato e la Chiesa, individuando nel concetto di tolleranza il punto d'incontro tra i compiti e gli interessi delle due istituzioni. Lo Stato, dice Locke, è «una società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili», intendendosi per beni civili la vita, libertà, l’integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, il possesso delle cose esterne. L’unico strumento di cui il magistrato civile dispone è la costrizione; ma la costrizione è incapace di condurre alla salvezza, perchè nessuno può essere salvato suo malgrado. La salvezza dipende dalla fede e la fede non può essere indotta negli animi con la forza.  La Chiesa, dice Locke, è «una libera società di uomini che si riuniscono spontaneamente per onorare pubblicamente Dio nel modo che credono sarà accetto alla divinità, per ottenere la salvezza dell'anima.  D'altro canto, però, Locke non intende negare o sminuire il valore della religione, riducendolo alla pura fede nel senso in cui la fede si contrappone alla ragione. Locke afferma e difende la possibilità del carattere razionale della religione e riconosce nel cristianesimo una religione razionale. L'opera intitolata Ragionevolezza del cristianesimo intende individuare nel cristianesimo quel nucleo essenziale e spoglio di superstizioni che lo rende accettabile dalla ragione.


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