HUME
David Hume nacque
nel 1711 a Edimburgo, dove studiò giurisprudenza. Ma i suoi interessi erano
rivolti alla filosofia e alla letteratura. Dopo si recò in Francia, dove rimase
tre anni a proseguire i suoi studi. In questo periodo compose la prima e
fondamentale sua opera, il Trattato sulla natura umana. Ebbe
diversi incarichi politici, che lo portarono nelle ambasciate militari presso
le corti di Vienna e di Torino.
La “scienza” della natura
umana
L’obiettivo della filosofia di Hume è quello di costruire
una scienza della natura umana su base sperimentale, che possa offrire
un’analisi sistematica. Questa
scelta empiristica finirà per mettere capo a una forma di scetticismo nel quale le pretese
conoscitive della natura umana risultano fortemente limitate.
Il percorso della conoscenza
Impressioni e idee
Nella sua analisi della conoscenza umana, Hume divide le percezioni della mente in due classi:
·
Impressioni,
cioè le percezioni che penetrano con maggior forza ed evidenza nella coscienza
e sono tutte le sensazioni
·
Idee,
cioè le immagini illanguidite di queste impressioni
Però la differenza fondamentale fra le due consiste nella
loro forza, infatti, l’idea non può mai
raggiungere la forza dell’impressione. Inoltre ogni idea deriva dalla
corrispondente impressione e non
esistono idee o pensieri di cui non si sia avuta precedentemente l’impressione.
L’uomo può senza dubbio comporre le idee nei modi più arbitrari e fantastici, e
spingersi con il pensiero fino agli estremi limiti dell’universo; ma non farà
mai realmente un passo al di là di se stesso, perché non avrà mai in suo
possesso altra specie di realtà che quella delle sue impressioni. Solo Hume risolve totalmente la realtà nel
molteplice delle idee attuali e nulla ammette al di là di esse. Per
spiegare la realtà del mondo e dell’io, egli non ha a sua disposizione le impressioni, le idee e i loro rapporti.
Ogni realtà deve per lui risolversi nei rapporti con cui si connettono tra loro
le impressioni e le idee. Hume dunque nega l’esistenza delle idee astratte, cioè idee che non
abbiano caratteri particolari: esistono unicamente idee particolari, assunte come segni di altre idee particolari a esse
simili. Per spiegare la funzione del segno, Hume ricorre a un principio di
cui si servirà largamente in tutte le sue analisi: l’abitudine. Si forma così in noi l’abitudine di considerare in
qualche modo unite tra loro le idee designate da un unico nome; sicché il nome
stesso risveglierà in noi non una sola di quelle idee, ma l’abitudine che abbiamo di considerarle
assieme. La funzione puramente logica
del segno concettuale diventa in Hume un fatto psicologico, un’abitudine.
Il principio di associazione
La facoltà di
stabilire relazioni tra idee è detta immaginazione.
Essa non risulta completamente affidata al caso. Questa connessione è garantita
da una forza che rappresenta ciò che
la forza di gravità rappresenta per la natura. Tale è il cosiddetto principio di associazione delle idee, che Hume descrive come “una
dolce forza che comunemente s’impone”. Questa “dolce forza” di attrazione opera
secondo tre criteri fondamentali: la
somiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la casualità. Hume ritiene che l’associazione stia alla base di quelle
che Locke chiama “idee complesse”. Tra queste idee le più importanti sono quelle
di spazio, di tempo, di causa ed effetto,
di sostanza. Lo spazio e il tempo
non sono “impressioni”, ma “maniere di
sentire” le impressioni, ovvero
modi con cui le impressioni si “dispongono” dinnanzi allo spirito.
Proposizioni che concernono
relazioni tra idee e proposizioni che concernono dati di fatto
Hume distingue le proposizioni:
·
che concernono relazioni tra idee: sono proposizioni che noi costruiamo basandoci
semplicemente sul principio di
non-contraddizione. Tali proposizioni sono dette analitiche, in quanto il predicato è già implicitamente contenuto
nel soggetto, dal quale può venire razionalmente ricavato per via di analisi.
Le proposizioni che concernono relazioni
tra idee hanno quindi in se stesse
la loro validità.
·
che concernono fatti: non sono fondate sul principio di
non-contraddizione, bensì sull’esperienza,
giacchè il contrario di un fatto è sempre possibile e “ogni cosa che è, può non
essere”.
L’analisi critica del
principio di causalità
Tutti i ragionamenti che riguardano realtà o fatti si
fondano sul rapporto causa-effetto.
La tesi fondamentale di Hume è che la
relazione tra causa ed effetto non può mai essere conosciuta a priori, cioè
con il puro ragionamento, ma soltanto
per esperienza. Nessuno, messo di fronte a un oggetto che per lui sia
nuovo, è in grado di scoprire le sue cause e i suoi effetti prima di averli
sperimentati e soltanto ragionando su di essi. Questo significa che la
connessione tra causa ed effetto, anche dopo che è stata scoperta per
esperienza, rimane arbitraria e
priva di qualsiasi necessità oggettiva. Anche dopo l’esperienza è stata fatta,
la connessione tra la causa e l’effetto rimane infatti arbitraria e non
potrebbe essere assunta come fondamento in nessuna previsione e in nessun
ragionamento sul futuro. Tutto ciò che “impariamo” dall’esperienza è che da cause che ci appaiono simili ci
aspettiamo effetti simili. Ma questa “attesa” non è giustificato
dall’esperienza, essendo piuttosto il presupposto
ingiustificabile dell’esperienza. Se ci fosse anche solo qualche sospetto
che il corso della natura potesse cambiare e che il passato non servisse da
regola per il futuro, ogni esperienza diverrebbe inutile e non potrebbe dare
origine ad alcuna inferenza o conclusione. Queste considerazioni di Hume
escludono che il legame tra causa ed
effetto possa essere dimostrato come oggettivamente necessario, cioè come
assolutamente valido. La necessità di
tale legame è quindi puramente soggettiva
e va cercata in un principio della natura umana. La ripetizione di un atto
qualsiasi, a lungo andare, produce nell’uomo la disposizione a ripetere lo
stesso atto senza che intervenga il ragionamento: questa disposizione è l’abitudine. Ma l’abitudine spiega la congiunzione che noi stabiliamo tra i fatti, non la
loro connessione necessaria. Spiega “perché” noi crediamo alla necessità
dei legami causali, ma non giustifica, né fonda questa necessità. L’abitudine è
una guida infallibile per la pratica della vita, ma non è un principio di
giustificazione razionale o filosofico.
La credenza nel mondo esterno
e nell’identità dell’io
Ogni credenza riguardante
realtà o fatti, in quanto risultato di
un’abitudine, è un sentimento o
un istinto, non un atto di ragione.
Tutta la conoscenza della realtà rientra nel dominio della probabilità. Con questo Hume intende “salvare” la differenza
esistente tra la credenza e la finzione. La prima, infatti, è un sentimento naturale, che non soggiace ai
poteri dell’intelletto. Se dipendesse dall’intelletto o dalla ragione,
allora potremmo credere qualunque cosa, poiché l’intelletto ha pieni poteri
sulle sue idee. La credenza è quindi riconducibile
alla maggiore vivacità che le impressioni possiedono rispetto alle idee.
Gli uomini credono abitualmente nell’esistenza di un mondo esterno, in quale viene “creduto” diverso ed estraneo
rispetto alle impressioni che se ne hanno. Hume comincia con il distinguere la credenza nell’esistenza continua delle cose,
che è propria di tutti gli uomini e anche degli animali, dalla credenza nell’esistenza esterna delle cose,
la quale suppone la distinzione semi-filosofica o pseudo-filosofica delle cose
dalle impressioni sensibili. Per quanto riguarda la prima, Hume osserva che
dalla coerenza e dalla costanza di certe impressioni l’uomo è tratto a immaginare
che esistano cose dotate di un’esistenza continua e ininterrotta. La coerenza e la costanza di certi gruppi
di impressioni ci fa dimenticare, o trascurare, che le nostre impressioni
sono sempre interrotte e discontinue, e ce le fa considerare come riunite in
oggetti persistenti e stabili. La credenza nella permanenza delle cose
appartiene alla parte irriflessiva e a-filosofica del genere umano ed è presto
distrutta dalla riflessione filosofica,
la quale insegna che ciò che si presenta
alla mente è soltanto l’immagine e la percezione dell’oggetto. Con
ragionamenti analoghi a questo, la riflessione filosofica conduce a distinguere
le percezioni, soggettive, mutevoli
e interrotte, dalle cose, oggettive
ed esternamente e continuamente esistenti. In verità la sola realtà di cui siamo certi è costituita dalle percezioni; le
sole inferenze che possiamo fare sono quelle fondate sul rapporto di causa ed
effetto. Una realtà che sia diversa dalle percezioni ed esterna a esse non si
può affermare né sulla base delle impressioni dei sensi, né sulla base del
rapporto causale. La realtà esterna è
dunque ingiustificabile, ma
l’istinto a credere in essa è ineliminabile. Una spiegazione analoga trova la
credenza nell’unità e identità dell’io.
Infatti, secondo Hume, noi non facciamo alcuna esperienza, né abbiamo alcuna
“impressione” del nostro “io”, ma solo dei nostri stati d’animo successivi, che
“compaiono” nella nostra coscienza come in una specie di teatro. Ciò che noi
sperimentiamo come “io” è soltanto un
fascio di impressioni che si susseguono nel tempo.
LOCKE
Locke fu il fondatore del cosiddetto empirismo inglese,
ossia di quella corrente della filosofia moderna, che si sviluppa a cavallo tra
Seicento e Settecento. L’empirismo si innesta nella tradizione del pensiero inglese e rappresenta un punto di incontro
di tale tradizione con il cartesianesimo
e con la rivoluzione scientifica. L’empirismo
risulta caratterizzato dalla teoria della ragione
come insieme di poteri limitati
dall’esperienza, intesa come fonte e origine del processo conoscitivo,
e come criterio di verità. Mentre il
primo aspetto riconnette l’empirismo a tutta la tradizione anti-innatistica
della filosofia occidentale, il secondo aspetto viene fatto valere in tutta la
sua forza e coerenza solo da Hume. Il richiamo costante all’esperienza fa sì
che l’empirismo tenda ad assumere un atteggiamento
limitativo o critico nei confronti delle possibilità conoscitive dell’uomo e
a seguire un indirizzo anti-metafisico,
che escluse dalla filosofia e da ogni ricerca legittima i problemi riguardanti
la realtà che non sono accessibili agli strumenti mentali di cui l’uomo
dispone. Dall’empirismo inglese, scaturisce quel concetto della filosofia come analisi del mondo umano, nei suoi vari campi, che sarà proprio
dell’Illuminismo. Nel 1687 furono pubblicati i Principi matematici di Newton. Nel 1690 comparve il Saggio
sull’intelletto umano di Locke.
Locke: la vita e le opere
Nato nel 1632 a Wrington, John Locke visse la sua giovinezza in un periodo turbinoso della
storia inglese, segnato dalla prima rivoluzione e dalla decapitazione del re.
Studio all'Università di Oxford, consegui il grado di Maestro delle arti e fu
chiamato a insegnare nella stessa Università di Oxford. Cominciò allora il più
importante della sua formazione. La maggiore influenza fu esercitata su di lui
dalle opere di Cartesio; ma egli studiò anche Hobbes e probabilmente Gassendi.
Cominciò ad occuparsi di studi naturali e di medicina, e fu chiamato dagli
amici "dottor Locke”. Cominciò il periodo più intenso della sua attività
letteraria, con la Lettera sulla tolleranza, i Due trattati sul governo
e il Saggio
sull'intelletto umano.
Ragione ed esperienza
Per Locke la ragione
non possiede nessuno di quei caratteri che Cartesio le aveva attribuito: non è unica o uguale in tutti gli
uomini, perchè essi ne partecipano in misura diversa; non è infallibile, perchè spesso le idee di cui dispone sono in
numero troppo limitato o sono oscure; inoltre la ragione non può ricavare da se idee e principi, ma deve ricavarli
dall'esperienza, che ha sempre limiti e condizioni. La ragione è comunque l'unica guida efficace di cui l'uomo
dispone e l'intera opera di Locke è diretta a estendere il campo del sua
azione a tutto ciò che interessa l'uomo. La stessa idea dell'opera maggiore di
Locke, il Saggio sull'intelletto umano,
nasce dal bisogno di affrontare problemi non strettamente filosofici. Da allora
Locke iniziò il lavoro per il Saggio.
E in quel momento nacque la prima
indagine critica della filosofia moderna, cioè la prima indagine diretta a
stabilire le effettive possibilità umane, con il riconoscimento dei limiti che sono propri dell'uomo. Questi limiti
sono propri dell'uomo perchè sono propri della sua ragione; ma sono propri
della sua ragione perchè essa deve fare i conti con l'esperienza. È l’esperienza, infatti, che fornisce alla ragione il
materiale che essa adopera, e cioè le idee
semplici, che sono gli “elementi" di ogni sapere umano. La ragione forma
idee complesse e ragionamenti; ma anche in questa attività deve essere controllata dall’esperienza. Se
controllata dall'esperienza, la ragione impedisce all'uomo di avventurarsi in
problemi che sono al di là delle sue capacità.
Le idee semplici e la
passività della mente
Locke desume da Cartesio il punto di partenza della sua
indagine: l’oggetto della nostra conoscenza è l’idea. Locke introduce la prima fondamentale limitazione rispetto l
cartesianesimo: le idee derivano
esclusivamente dall’esperienza, cioè sono il frutto della sua passività di
fronte alla realtà. E poiché per l’uomo la realtà o è realtà esterna (le cose
naturali) o è realtà interna (il suo spirito), le idee possono derivare
dall’una o dall’altra di queste realtà e si chiameranno idee di sensazione se derivano dal senso esterno e idee di
riflessione se derivano dal senso
interno. Sono idee di sensazione, o più semplicemente sensazioni, il giallo,
il caldo, il duro, l’amore e, in generale, tutte le qualità che attribuiamo
alle cose. Sono idee di riflessione la percezione, il pensiero, il dubbio, il
ragionamento, la conoscenza e, in generale, tutte le idee che si riferiscono a
operazioni del nostro spirito. Locke si mantiene fedele al principio cartesiano
secondo il quale avere un’idea significa
percepirla, cioè esserne cosciente, ma di questo
principio si avvale proprio nella critica
dell’innatismo. Questa critica si riduce sostanzialmente a un unico
argomento. Le idee non ci sono quando non sono pensate; giacchè, per l’idea, esistere significa essere
pensata. Le idee innate dovrebbero esistere in tutti gli uomini, quindi
anche nei bambini, negli idioti e nei “selvaggi”; ma poiché da queste persone
non sono pensate, esse non esistono in loro, perciò non possono considerarsi
innate. Se tutta la nostra conoscenza risulta di idee e se le idee derivano
dall'esperienza, l'analisi della nostra capacità conoscitiva dovrà in primo
luogo fornire una classificazione di
tutte le idee che l'esperienza ci fornisce. L'esperienza ci fornisce soltanto idee semplici; le idee complesse
sono prodotte dal nostro spirito
mediante la riunione di varie idee semplici. Ma neppure l'intelletto più potente può inventare o creare un'idea
semplice nuova, cioè non derivante dall'esperienza. Questo è il limite
insuperabile dell'intelletto umano. Per ciò che riguarda le idee di sensazione,
Locke distingue tra le sensazioni da una parte e le qualità delle cose che le
producono in noi dall'altra, e a questo proposito riprende la distinzione tra
qualità oggettive e qualità soggettive già elaborata da Galileo e Cartesio.
Locke chiama dunque qualità originarie o
primarie quelle oggettive, che
egli definisce anche «reali», intendendo affermare che esistono "realmente
la nei corpi, a prescindere dal fatto che vengano o meno percepite; e qualità secondarie quelle soggettive, che sussistono finche c'è
un soggetto che le percepisce
L’attività della mente
Se nel ricevere le idee semplici lo spirito è puramente
passivo, esso diventa invece attivo nel servirsi di tali idee come di un
materiale per le sue costruzioni, cioè nel riunire
e organizzare in vario modo le idee semplici. Questa attività dello spirito
può dar luogo a idee complesse e a idee generali. Le idee complesse si
lasciano ricondurre a tre categorie fondamentali: i modi, che sono quelle idee
non considerate sussistenti di per se, ma solo come manifestazioni di una
sostanza (gratitudine, delitto); le sostanze, che sono le idee complesse
che vengono considerate come esistenti di per se (uomo, cane); le relazioni, che sono le idee che
scaturiscono dal mettere a confronto più idee, istituendo tra esse un rapporto.
Di tutti questi tipi di idee complesse Locke si ferma a considerare le forme
principali. La sua analisi risulta particolarmente importante per ciò che
concerne l'idea complessa di sostanza.
Considerando che varie idee semplici sono costantemente unite tra loro,la
nostra mente è portata inavvertitamente a considerarle come un'unica idea
semplice; e poichè non arriva a immaginare come un'idea semplice possa
sussistere di per se, si abitua a supporre un qualche substratum che ne sia la
base. Ciò vale sia per la sostanza corporea,
sia per la sostanza spirituale: la
prima è il substrato sconosciuto delle qualità sensibili, la seconda è il
substrato altrettanto sconosciuto delle operazioni dello spirito. Tra le idee
complesse ci sono anche quelle di relazione,
che indicano le cose che sono poste in relazione. Tra le relazioni sono
fondamentali quelle di causa ed effetto,
di identità e di diversità. Egli scorge questa identità
nella coscienza che accompagna gli
stati o i pensieri che si succedono nel senso interno. A tutte le sue
sensazioni e percezioni si accompagna la consapevolezza che è il suo io a
sentire o a percepire. Per quanto riguarda invece la formazione di idee generali, queste non in dicano
alcuna realtà, ma sono soltanto segni di un insieme di cose particolari. I nomi generali sono dunque segni di idee generali; ma le idee generali sono a loro volta segni di gruppi di cose particolari.
Alle idee generali non corrisponde pertanto alcuna realtà generale o
universale, ma soltanto un certo rapporto di somiglianza tra le cose
particolari, che sono le sole esistenti. Per la maggior parte dei pensatori
precedenti il linguaggio era arbitrario solo nel senso che il significante (il
nome) era considerato un segno convenzionale. A questa arbitrarietà
del significante Locke aggiunge
quella del significato, cioè dello schema di mediazione tra i nomi e le
cose. Affermando infatti che anche l'idea generale è un segno convenzionale, il
filosofo "sgancia' non solo il linguaggio, ma anche la conoscenza dal
la realtà effettiva. La natura offre similitudini: i generi e le specie non sono ambiti o strutture dell'essere, ma strumenti classificatori. La dottrina della conoscenza si riduce
cosi, nella prospettiva lockiana, a semiotica,
ovvero a dottrina dei segni.
La conoscenza e le sue forme
L’esperienza fornisce il materiale della conoscenza, che consiste nella percezione di un accordo o di un disaccordo
delle idee tra loro. La conoscenza può essere di due specie diverse. È conoscenza intuitiva quando l'accordo o il disaccordo di due idee è
visto immediata e questa conoscenza è la più certa che l'uomo possa
raggiungere ed è quindi il fondamento
della certezza e dell'evidenza di ogni altra conoscenza. Si tratta invece
di conoscenza dimostrativa quando l'accordo o il disaccordo tra due
idee non è percepito immediatamente, ma viene reso evidente mediante l'uso di idee intermedie che si chiamano
"prove”. La conoscenza
dimostrativa consiste evidentemente in una catena
di conoscenze intuitive. Accanto a queste due specie di conoscenza, ce n'è
anche un'altra, che è la conoscenza delle cose
esistenti al di fuori delle idee, secondo la quale la conoscenza è vera solo se c'è una conformità tra le idee e le cose
reali. Ci sono tre ordini di realtà: l'io, Dio e le cose; e ci sono tre
modi di giungere alla certezza di queste tre realtà: dell'esistenza del nostro io attraverso l'intuizione; dell'esistenza di Dio
attraverso la dimostrazione; dell’esistenza delle cose attraverso la sensazione.
Per ciò che riguarda l’esistenza dell’io, Locke si avvale del procedimento cartesiano. Io penso e con
ciò intuisco la mia propria esistenza e non posso dubita di essa. Perciò che
riguarda l'esistenza di Dio, Locke rielabora la prova causale (o prova ontologica a
posteriori) della tradizione nulla: se qualcosa c’è, vuol dire che è stato
prodotto da un’altra cosa e dunque si deve ammettere un essere eterno che ha
prodotto ogni cosa. Quanto all’esistenza
delle cose, l’uomo non ha altro mezzo di conoscerla tranne che la
sensazione, e precisamente la sensazione
attuale. Il fatto che noi riceviamo
attualmente l'idea dall'esterno ci fa conoscere che qualcosa esiste in
questo momento fuori di noi e produce in noi l'idea. Nel momento in cui noi
riceviamo una sensazione, siamo certi che esiste la cosa che la produce in noi;
e questa certezza basta, secondo Locke, a garantire la realtà della cosa
esterna. La certezza che la
sensazione attuale ci dà dell'esistenza delle cose esterne pur non essendo
assoluta, è sufficiente per tutti gli
scopi umani. Locke, tuttavia, ritiene che essa possa essere confermata da
alcune ragioni supplementari: le
idee vengono a mancarci quando ci manca l'organo di senso adeguato; le idee sono
prodotte nel nostro spirito senza che noi le possiamo evitare; molte idee sono
prodotte in noi con piacere o con dolore, mentre quando sono soltanto ricordate
non sono più accompagnate da piacere o da dolore; i sensi si offrono
testimonianza reciproca, ad esempio il tatto e la vista confermano l’esistenza
di una cosa e così rafforzano la certezza dell’esistenza delle cose. Ma queste
ragioni valgono soltanto per l’istante in cui la sensazione è ricevuta. Quando l'oggetto non è più testimoniato dai
sensi, la certezza della sua esistenza sparisce ed è sostituita da una
semplice probabilità.
Perciò Locke, accanto al dominio della conoscenza certa,
che è limitato all'intuizione, alla dimostrazione e alla sensazione attuale,
ammette il dominio della conoscenza
probabile, che è assai più esteso. Conoscenza probabile è quella nella
quale si afferma la verità o la falsità di una proposizione non già per la sua
evidenza, ma per la sua conformità con
l'esperienza passata o con la testimonianza di altri uomini. La conoscenza
certa e quella probabile costituiscono il dominio della ragione. Dalla ragione
si distingue la fede, che è fondata soltanto sulla rivelazione. La
ragione rimane tuttavia il criterio della stessa fede, perchè solo essa può
decidere dell'attendibilità e del valore della rivelazione.
La politica
Il diritto naturale
Locke affermava il carattere
razionale o dimostrativo dell'etica, in quanto sosteneva che non si può
proporre alcuna regola morale di cui non si sappia dar ragione; che la ragione
di tali regole dovrebbe essere la loro utilità per la conservazione della
società e per la felicità pubblica; che nella disparità delle regole morali nei
differenti gruppi in cui l’umanità si divide, occorrerebbe isolare e
raccomandare quelle che si rivelano veramente efficaci a questo scopo. Nel dominio del pensiero politico e religioso,
invece, Locke ci ha lasciato contributi fondamentali: la Lettera sulla tolleranza,
i Due
trattati sul governo e la raccolta di scritti sulla Ragionevolezza
del cristianesimo. Queste opere
fanno di Locke il fondatore del liberalismo
moderno, cioè uno dei primi e più efficaci difensori delle libertà dei cittadini, della tolleranza religiosa e della libertà
delle Chiese. L'affermazione
dell'esistenza di una legge di natura
che è la ragione stessa in quanto ha
per oggetto i rapporti tra gli uomini
e che prescrive la reciprocità perfetta
di tali rapporti. Anche per Locke, come per Hobbes, lo stato di natura è caratterizzato da una condizione di uguaglianza di tutti gli uomini, ma
mentre per Hobbes si tratta di un uguaglianza di forza, per Locke si tratta di
un'uguaglianza di diritti: tutti hanno
l'identico diritto di disporre di se stessi e dei propri beni. Nello stato
di natura ogni uomo è dunque perfettamente libero. La legge
di natura è una legge della ragione,
ma non nel senso che indica all'uomo come conseguire il vantaggio della sopravvivenza,
bensì nel senso che rivela a tutti gli
uomini,in quanto ugualmente dotati di ragione, alcuni limiti invalicabili. Il
diritto naturale dell'uomo è dunque limitato alla propria persona: alla
propria vita, alla propria libertà e alla proprietà. Ognuno può e deve reagire in modo proporzionato alle offese,
assumendo il ruolo del giudice che risarcisce un danno con una giusta pena. Ma
neppure questo diritto autorizza l'uso di una forza assoluta o arbitraria, ma
solo quella reazione che la ragione indica come proporzionata alla
trasgressione.
Stato e libertà
Per Locke, lo stato di natura non è necessariamente, come
voleva Hobbes, uno stato di guerra, bensì una condizione di pacifica
coesistenza. Ma può diventare uno stato di guerra quando una o più persone
ricorrono alla forza. Proprio per evitare questo stato di guerra, gli uomini si
pongono in società e abbandonano lo stato di natura. Ma la costituzione di un
potere civile non toglie agli uomini i diritti di cui godevano nello stato di
natura. Se la libertà naturale consiste per l'uomo nell'essere limitato
soltanto dalla legge di natura, la libertà
dell'uomo nella società consiste nel non sottostare. Il potere civile è scelto dagli stessi
cittadini e, quindi, nello stesso tempo è un atto e una garanzia di libertà dei cittadini medesimi.
Pertanto la legge di natura non implica, ma esclude che il
contratto che dà origine a una comunità civile legittimi un potere assoluto o
illimitato. L'uomo, che non possiede
alcun potere sulla propria vita, non
può, con un contratto, rendersi schiavo di un altro.
Tolleranza e ragione
La Lettera
sulla tolleranza è uno dei più solidi monumenti elevati alla libertà di coscienza. Nella Lettera Locke mette a confronto lo Stato e la Chiesa, individuando nel concetto di tolleranza il punto d'incontro tra i compiti e gli interessi delle
due istituzioni. Lo Stato, dice
Locke, è «una società di uomini
costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili»,
intendendosi per beni civili la vita, libertà, l’integrità del corpo, la sua
immunità dal dolore, il possesso delle cose esterne. L’unico strumento di cui
il magistrato civile dispone è la costrizione; ma la costrizione è incapace di condurre alla salvezza, perchè nessuno
può essere salvato suo malgrado. La salvezza dipende dalla fede e la fede non
può essere indotta negli animi con la forza.
La Chiesa, dice Locke, è «una libera società di uomini che si
riuniscono spontaneamente per onorare pubblicamente Dio nel modo che
credono sarà accetto alla divinità, per
ottenere la salvezza dell'anima. D'altro canto, però, Locke non intende negare
o sminuire il valore della religione, riducendolo alla pura fede nel senso in
cui la fede si contrappone alla ragione. Locke afferma e difende la possibilità
del carattere razionale della religione e riconosce nel cristianesimo una religione
razionale. L'opera intitolata Ragionevolezza del cristianesimo
intende individuare nel cristianesimo quel nucleo
essenziale e spoglio di superstizioni che lo rende accettabile dalla ragione.
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