Vittorio Alfieri nacque ad Asti nel 1749, da una famiglia
della ricca nobiltà terriera. Rappresenta la figura dello scrittore che, grazie
alle cospicue rendite, può dedicare tutto il suo otium alla letteratura. Infatti,
della nascita nobile Alfieri si compiaceva perché gli permetteva di non essere
schiavo di altri nobili. Fece numerosi viaggi in Italia e in Europa, non per la
curiosità di vedere, ma perché spinto da un’irrequietezza continua. Infatti
anche nella Vita, Alfieri narra che i
suoi viaggi non gli avevano permesso di acquisire vere e proprie conoscenze, ma
aveva semplicemente potuto accumulare una concreta esperienza delle condizioni
politiche e sociali dell’Europa contemporanea, cioè dell’assolutismo. Tuttavia
ciò che lo affascina sono soprattutto i paesaggi desolati e orridi, selvaggi e
maestosi. Quando ritorna a Torino, la sua insofferenza per ogni legame e
gerarchia gli impedisce di dedicarsi alle attività politiche e militari che
erano proprie della nobiltà sabauda. Conduce quindi una vita oziosa, chiuso in
una solitudine inerte. Nel 1775 avviene la sua conversione. Infatti l’anno
prima, spinto da un impulso non ben definito, aveva abbozzato una tragedia, Antonio e Cleopatra, dimenticandola
subito dopo. Ma quando vi ritornò notò che questa storia era simile alla sua
con la Turinetti. Così si rende conto di come proiettare i propri sentimenti
nella poesia costituisca l’unico mezzo per trovare un superamento dei propri
tormenti, una catarsi. In questo periodo si viene a manifestare la sua
vocazione di poeta tragico. Ma data l’insufficienza dei suoi primi studi, con
caparbia volontà studiò i classici latini e italiani. Morì a Firenze nel 1803. Il suo rapporto con l'Illuminismo
Fu il massimo esponente del teatro tragico
italiano, si forma in un contesto culturale dominato dall'Illuminismo e
tuttavia la sua personalità tormentata, malinconica e ribelle, protesa
titanicamente verso un ideale di grandezza sublime, anticipa una sensibilità
che si affermerà con il Romanticismo. Benché le basi della formazione di
Alfieri siano costituite dagli illuministi francesi (Voltaire, Rousseau e
Montesquieu), le sue opere mostrano una diversa visione della realtà: egli
esalta la passionalità sfrenata, la spontaneità e l'immaginazione contro il razionalismo
scientifico; esprime un bisogno assoluto inconciliabile con le istanze
antireligiose; sull'ottimismo fiducioso nel progresso morale e civile fa
prevalere il senso della miseria e dell'impotenza dell'uomo; disprezza lo
spirito borghese; nutre una concezione elitaria della cultura; celebra
l'individualità eccezionale contro la massa.
Le idee
politiche
Lo stesso pensiero politico alfieriano, riconducibile
apparentemente all'illuminismo per l'avversione contro la monarchia e per il
culto della libertà, stenta a definirsi in un progetto concreto di cambiamento.
Pur avendo inizialmente guardato con favore alla Rivoluzione francese, Alfieri
ne prende le distanze nel momento in cui inizia a delinearsi il nuovo assetto
borghese. Incapace di adattarsi ad una realtà sentita come mediocre, lo
scrittore si chiuse in un aristocratico isolamento, che prefigura la condizione
di sradicamento dell’intellettuale romantico. Alfieri si trova in urto sia con
ciò che esiste, l’assolutismo, sia con ciò che è destinato a sostituirlo,
l’assetto borghese. L’odio contro la tirannide, che è il punto centrale di
tutta la sua riflessione, non è la critica di una forma particolare di governo,
ma il rifiuto del potere in sé, in assoluto e in astratto, in quanto ogni forma
di potere è iniqua e oppressiva. Anche il concetto di libertà resta astratto e
indeterminato. Infatti la riprova di questa astrattezza dell’ideale di libertà
è che Alfieri si entusiasma per le rivoluzioni del suo tempo ma appena esse si
assestano in un ordine nuovo assume atteggiamenti disillusi e sdegnosi. Ad
esempio, per celebrare la rivoluzione americana scrive quattro odi, ma poi ne
scrive una quinta su più amare riflessioni. Già nelle opere propriamente
politiche si delinea il titanismo alfieriano
(cioè l’atteggiamento di ribellione che nasce da uno smisurato orgoglio, da
un’ansia di sovrumana grandezza e di infinita libertà), un’ansia di infinita
grandezza e di infinità libertà che si scontra con tutto ciò che la limita e
l’ostacola. In quest’immagine di un’io gigantesco si proietta miticamente la
stessa condizione storica di Alfieri: l’estraneità al suo secolo, la
malinconia, l’inquietudine, la solitudine. Questo rifiuto del titanismo tende a
collocare Alfieri al di fuori della cultura razionalistica e sensista
dell’Illuminismo. Il “tiranno”, per Alfieri, non è soltanto la trasfigurazione
mitica di una condizione storica oppressiva, ma anche la proiezione di un
limite che Alfieri trova in sé stesso.
Le opere politiche
Il momento più radicale della
riflessione politica alfieriana coincide con il trattato giovanile Della tirannide, caratterizzato da
un'accesa polemica contro ogni tipo di monarchia che ponga il sovrano al di sopra
delle leggi, e conduce una critica contro l’ideale settecentesco del dispotismo
illuminato: perchè tale sistema di governo sia rovesciato, Alfieri vagheggia il
gesto eroico dell'uomo libero, che provochi un'insurrezione popolare. Lo
scrittore poi passa a esaminare le basi su cui si appoggia il potere tirannico,
e le individua nella nobiltà, docile strumento nella mani del despota, nella
casta militare, mediante cui i sudditi erano oppressi, e nella casta
sacerdotale, che educa a servire con cieca obbedienza. Nelle opere più tarde, come il Misogallo, opera mista di prosa e di
versi, la delusione per gli esiti del processo rivoluzionario francese, dei
principi illuministici e dello spirito borghese spinge lo scrittore a rivalutare
la monarchia e la nobiltà come mali minori rispetto al nuovo assetto borghese. Alfieri difende i privilegi della casta
nobiliare, ribadisce il ruolo inevitabilmente subalterno del terzo stato.
Quest’opera è importante perché in questa comincia a delinearsi l’idea di
nazione. Già nel trattato in tre libri Del principe e delle lettere Alfieri
aveva del resto affermato la superiorità dell'attività letteraria sull'impegno
civile, delineando la figura di un intellettuale separato dalla realtà e chiuso
in una sdegnosa solitudine. Il disprezzo per le masse popolari per la borghesia
emerge anche nelle Satire e nelle sei
Commedie, che mettono a nudo una
concezione assai pessimistica dell'umanità, rappresentata come profondamente
meschina.
La poetica tragica
Alfieri trova la
forma letteraria più congeniale nella tragedia. A scegliere la forma tragica
come espressione del suo mondo interiore il poeta è indotto da vari motivi:
innanzitutto la tragedia appariva il genere poetico più adatto ad esprimere il
titanismo alfieriano, poi non aveva ancora trovato nella cultura italiana una
realizzazione soddisfacente, e infine era anche considerata il genere più
sublime e più difficile. Tutti questo motivi indussero il poeta a considerare
questo genere come una sfida che gli avrebbe permesso di raggiungere una fama
notevole. Il poeta parte da una polemica nei confronti della grande tragedia
classica francese (il modello più prestigioso), a cui rimprovera la prolissità,
il patetismo sentimentale, il carattere romanzesco; a questo modello
contrappone un meccanismo tragico serrato e incalzante, tutto incentrato su
pochi personaggi principali, e uno stile conciso e spezzato, anti musicale e
rapido, capace di esprimere grande intensità drammatica. Nella poetica
alfieriana agiscono inoltre istanze legate al classicismo: l'attenta
elaborazione stilistica e il rispetto delle tre unità aristoteliche (di tempo,
di luogo e di azione), infatti le sue tragedie si svolgono di norma su un arco
temporale di 24ore, hanno una scena fissa ed un’azione unitaria. Il bisogno di
disciplina viene descritto dallo stesso Alfieri nella Vita, in cui egli spiega che ogni tragedia si articola su 3 momenti
fondamentali, che chiama “3 respiri”: “ideare”, che consiste nell’ideare il
soggetto della tragedia, nel suddividerla in atti e in scene e nel fissare il
numero dei personaggi; “stendere”, consiste nello scrivere per intero i
dialoghi in prosa; e “verseggiare”, che consiste nello stendere i dialoghi in
versi. Pur prestando grande attenzione
allo spettacolo e ai modi della rappresentazione, il disprezzo per il pubblico
e per il teatro contemporanei inducono Alfieri a presentare le proprie tragedie
solo in ambienti privati: il teatro per il quale egli scrive è dunque un
contesto ideale, fatto di cittadini di un'utopica Italia a venire. Anche nella
produzione tragica si riflette l'evoluzione ideologica dalla tensione eroica
giovani le al disinganno della maturità. L’evoluzione
del sistema tragico
Al centro delle prime tragedie campeggiano infatti
eroi sovrumani, chiusi nella loro individualistica solitudine, ma essi cedono
gradualmente il posto a personaggi intimamente deboli, coscienti
dell’inevitabile sconfitta, come il protagonista del Saul (1782). L’Antigone costituisce
un ideale secondo momento della stessa tragedia. Vi viene approfondito il tema
del fato come simboli di un’assurda negatività del vivere. Antigone è la
vittima predestinata e consapevole. In lei si manifesta una diversa vocazione
all’eroico, ma il rifiuto sdegnoso di una realtà che contamina, il
ristabilimento, attraverso la scelta della morte della propria assoluta
purezza.
La prima crisi dell’individualismo eroico è superato con
la Virginia. L’ideologia eroica
assume qui vesti decisamente politiche e si proietta nei personaggi di una
mitizzata Roma classica. L’azione è un’appassionata celebrazione della virtù
romana, delle libertà politiche e civili dell’antica repubblica. Il personaggio
centrale Icilio è il primo degli eroi di libertà alfieriani. Il travaglio
pessimistico che corrose l’ideale eroico trova qui il supermento in una
positiva fede politica. Con la Virginia si
conclude una prima fase della produzione tragica alfieriana. Dopo di essa si
apre un periodo di sperimentazioni. Con la Congiura
de’ Pazzi, ambientata nella Firenze di Lorenzo de’ Medici, Alfieri
abbandona il mito classico. Il suicidio di Raimondo, che si oppone alla
tirannide di Lorenzo il Magnifico, è il suicidio del vinto, atto di protesta
magnanimo ma disperato e sterile. Nel Timoleone il poeta riprende nuovamente
la tematica politica della libertà, cercando nell’eroe ricavato da Plutarco una
compensazione allo scacco subito dalla sua ansia eroica. In Timoleone si
proietta un puro e astratto ideale. Più che due uomini, nella tragedia si scontrano
due enti astratti, la volontà di assoluto dominio rappresentata da Timofane e
quella di assoluta libertà rappresentata da Timoleone. Entrato definitivamente
in crisi l’ideale eroico, Alfieri si
apre a una tematica nuova, attenta alla sfera privata degli affetti intimi, che
trova la sua massima espressione nella Mirra
(1784-86): il conflitto si trasferisce dall'esterno all'interno dei personaggi,
rappresentanti di un'umanità dolente, lacerata da sentimenti contrastanti, in
cui si rivela la miseria universale del vivere. In Alfieri resiste comunque una
caparbia volontà di manifestarsi fedele a certi ideali: con il Bruto primo e il Bruto secondo, tornando a ricavare gli argomenti dalla storia di
Roma antica, il poeta riprende le tematiche politiche libertarie e
antitiranniche. Quelle tematiche tuttavia rivelano ormai di essere svuotata al
loro interno ed appaiono prive dell’originarie fervore, ridotte a costruzione
tutta esteriore e volontaristica.
Saul Saul rappresenta una figura di eroe del tutto
nuova: non è l’eroe monolitico nella sua forza e nella sua fermezza, ma un eroe
intimamente lacerato e perplesso. Saul è intimamente diviso perché è un eroe
“maledetto” su cui grava il peso di un’oscura colpa, che lo isola dagli uomini
comuni, che genera in lui conflitti e tomenti angosciosi e lo vota a una
sconfitta totale. Per un aspetto si ripresenta in Saul la fisionomia di tanti
altri tiranni delle precedenti tragedie alfieriane. Ma la novità di Saul
consiste nel fatto che questa volontà titanica si scontra con un limite
invalicabile, la superiore volontà di dio. Questo motivo del luciferino peccato
d’orgoglio di una personalità titanica si presenta nel dramma giovanile di
Friedrich Schiller, I masnadieri. Lo
scontro dell’eroe con la dimensione trascendente costituisce la novità
clamorosa del Saul rispetto alla
precedente produzione alfieriana. Affinché la tragicità del conflitto fra Saul
e Dio sussista, è necessario che la presenza di Dio sia una realtà oggettiva
nel mondo della tragedia, sentita come tale e partecipata dall’autore. Il Saul
sull’arco della produzione tragica alfieriana segna la crisi
dell’individualismo eroico e titanico, della tensione magnanima, e la scoperta
dei limiti della condizione umana. La tragedia si svolge tutta entro la psiche
dell’eroe. Il Saul è
l’interpretazione di una crisi di identità, di una scissione dell’io. Questa
interiorizzazione del conflitto si manifesta anche nel rapporto con David, che
costituisce l’altro tema dominante della tragedia. Anche qui il conflitto è
tutto dentro Saul, perché il vecchio re non viene in urto col David reale, ma
con un David immaginario. La tragedia si presenta quindi come un grande
monologo. Saul non parla mai veramente con gli altri, parla solo con se stesso:
quando è in scena, i personaggi con cui entra in relazione non sono che
proiezioni delle sue ossessioni. Intreccio: David,
esule per volontà del re Saul, fa ritorno presso il suo sovrano per aiutarlo
nella guerra contro i Filistei. Saul lo accoglie inizialmente con benevolenza,
grazie all’intercessione dei figli Gionata e Micol (moglie di David). Il
consigliere Abner fomenta tuttavia la naturale differenza del sovrano,
inducendolo a vedere in David e nella casta sacerdotale pericolosi avversari.
Saul decide dunque di eliminare David e fa uccidere il sacerdote Achimelech,
sopraggiunto nell’accampamento. Mentre David fugge, i Filistei attaccano a
sorpresa nella notte: braccato dai nemici, Saul si suicida.
La Vita scritta da esso
La principale fonte per la conoscenza della personalità di Alfieri è
costituita dall'autobiografia Vita
scritta da esso. Essa ricostruisce il delinearsi di una vocazione poetica,
vista come il centro intorno a cui ruota tutta l'esistenza, e nello stesso
tempo esprime il disagio esistenziale e la delusione storica che caratterizzano
l'ultimo Alfieri. Quest’opera si può dividere in due parti: la Parte prima (divisa in 4 epoche: Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità);
e Parte seconda (che è una
continuazione della 4°epoca). In quest’opera il poeta ripercorre la sua vita
alla luce dell’opera tragica e la presenta tutta incessantemente protesa a
raggiungere quella meta, contempla a distanza se stesso e le proprie debolezze.
Le Rime
Natura autobiografica hanno
anche le Rime, composte lungo tutto
l'arco dell'esistenza del poeta. Se i motivi e il lessico rinviano al
Canzoniere petrarchesco, il linguaggio alfieriano è lontanissimo dalla
musicalità sia del modello sia della lirica settecentesca, puntando
all'intensificazione espressiva. Cosi come lo stile, anche i temi rivelano una
sensibilità nuova, che si può considerare preromantica. Ci sono diversi temi:
amoroso, in cui l’amore è considerato lontano, irraggiungibile e quindi fonte
di infelicità; politico, infatti vi è una forte polemica contro un epoca vile e
meschina; della morte, che appare sia come l’unica possibilità di liberazione
sia come l’ultima prova dinanzi a cui si deve dimostrare la saldezza magnanima
dell’io.
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