Machiavelli
La vita
L’attività
politica
Niccolò Machiavelli nacque
a Firenze nel 1469da una famiglia borghese. Ebbe un’educazione umanistica,
basata sui classici latini, ma non apprese il greco. Faceva parte degli
oppositori di Savoranola, un partito politico della città. Divenne segretario
della seconda cancelleria del Comune. I suoi incarichi gli conferivano grandi
responsabilità nella politica della Repubblica. Da questi incarichi ottenne poi
anche spunto per le riflessioni, le teorie e le analisi trasferite poi nelle
sue opere. Presso il re Luigi XII cominciò a conoscere la forte monarchia
francese e la salda struttura di quello Stato Assoluto moderno, per cui ebbe
sempre ammirazione. Compì una missione presso Cesare Borgia (figlio di papa
Alessandro VI) e restò molto colpito dalla sua figura di politico audace e
spregiudicato. Nel Principe la figura
di Cesare Borgia viene assunta come esempio della “virtù” che deve avere un
nuovo principe. Durante una successiva missione presso Cesare Borgia,
Machiavelli potè conoscere la sua freddezza e la sua decisione spietata. Dopo
la morte di papa Alessandro VI e del suo successore Machiavelli, in un
conclave, assistette alla rovina della politica di Cesare Borgia che dopo
questa morì.
La riflessione
politica e le missioni diplomatiche
Nel frattempo Machiavelli
si dedicò anche all’attività letteraria e scrisse in versi una cronaca delle
vicende italiane. In questi anni Machiavelli si adoperò per convincere i
maggiorenti della città a creare una milizia comunale e si recò nelle campagne
per arruolare soldati, in quanto sosteneva che bisognava evitare le infide
milizie mercenarie e bisognava creare un esercito permanente. Costituita così
la magistratura dei Nove, Machiavelli ne divenne segretario. Durante un viaggio
in Svizzera e in Germania restò ammirato dalla compattezza delle comunità di
quei popoli e dalle loro forti tradizione civili e guerriere, che ricordavano i
primi tempi della Roma repubblicana. Nel 1511 scoppiò uno scontro tra la
Francia e la Lega Santa, che vide la caduta della Repubblica, il ritorno dei
Medici a Firenze e il licenziamento di Machiavelli da tutti i suoi incarichi.
L’esclusione
dalla vita politica
L’esclusione dalla vita
politica fu per lui un colpo durissimo. Fu anche sospettato di aver preso parte
ad una congiura antimedicea, torturato e tenuto in prigione per quindici
giorni. Quando uscì si ritirò a San Casciano dove scrisse il Principe, la Mandragola e iniziò i Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio. Tuttavia non riusciva a stare lontano
dalla vita politica e per questo cercò un riavvicinamento con i Medici,
dedicando il Principe a Lorenzo de’
Medici. Nonostante ciò, i Medici continuarono a guardarlo con diffidenza.
Quando morì Lorenzo, Machiavelli riuscì a tornare a Firenze il cui governo era
stato assunto dal cardinale Giulio de’ Medici. Fu proprio a Giulio de’ Medici
che Machiavelli dedicò le Istorie
fiorentine. Nel 1527, però, i Medici vennero cacciati nuovamente da Firenze
e si riaffermò la Repubblica: Machiavelli però venne guardato con sospetto e
ammalatosi all’improvviso, morì nel 1527.
L’epistolario
Solo parzialmente ci sono
pervenute le lettere “familiari” che Machiavelli scrisse ad amici e conoscenti.
In esse si alternano argomenti e toni vari: vi si trovano riflessioni di teoria
politica, ma anche scherzi, sfoghi di umore, descrizioni di figure e
macchiette, spunti di novelle. Tra tutte queste spiccano le lettere scritte a
Francesco Vettori precedentemente alla perdita degli incarichi politici. Sono
la riflessione sulla situazione politica, ma anche spunti autobiografici e
resoconti della propria vita quotidiana. Famosissima è quella del 10 dicembre
1513, in cui Machiavelli descrive la sua giornata di esilio all’Albergaccio, le
futili occupazioni del mattino e del pomeriggio, a cui si contrappone lo studio
serale dei classici. Questa lettera è anche importante perché fornisce
l’indicazione dell’avvenuta composizione del Principe. Fra le lettere fanno anche ricordati i cosiddetti Ghibizzi al Soderini, un abbozzo di
epistola indirizzata al nipote del gonfaloniere fiorentino, Giovan Battista
Soderini. È importante perché contiene alcuni punti fondamentali del pensiero
di Machiavelli: la necessità di adattare il proprio modo di procedere con i
tempi, seguendo la Fortuna, la conoscenza della realtà che può avvenire sia
direttamente o anche attraverso i libri.
Gli scritti
politici del periodo della segreteria (1498-1512)
Le Legazioni e commissarie
Tra gli scritti politici
di questo periodo vanno distinti innanzitutto quelli ufficiali, le cosiddette Legazioni e commissarie, cioè le
relazioni e i dispacci inviati al governo fiorentino durante i vari incarichi.
Sono testi interessanti, perché si può cogliere il pensiero di Machiavelli e si
vedono gli schemi di analisi delle situazioni storiche, l’affermazione del
principio dell’esperienza come fonte della conoscenza, il riferimento agli
esempi Romani. Anche in quelli che
dovrebbero essere documenti ufficiali, emerge la vigorosa personalità
intellettuale dello scrittore. I più interessanti di questi documenti sono
quelli che si riferiscono ai momenti salienti della politica di Cesare Borgia.
Scritti
sulla politica italiana
Ci sono giunte anche altri
brevi scritti politici, meno ufficiali. Il primo è il Discorso sopra le cose di Pisa, dove si sostiene la necessità della
forza per sottomettere la città che si era ribellata al dominio fiorentino. In
un’altra opera Machiavelli consiglia di non cercare la vita di mezzo per le
soluzioni delle questioni politiche, ma di prendere decisioni rapide come
facevano gli antichi Romani.
Il Ritratto delle cose della Magna e il Ritratto delle cose di Francia
Vi sono poi gli scritti in
cui Machiavelli raccoglie le riflessioni suscitate dalle sue missioni in
Germania e in Francia. La Francia per Machiavelli diventa il modello di uno
stato moderno, solido, unito; mentre il modello germanico, frazionato in feudi
e comunità cittadine, gli appare disunito e debole.
Il Principe e i Discorsi
Il Principe
Il genere e
i precedenti dell’opera
Il Principe è un trattato di dottrina politica scritto da Niccolò
Machiavelli, nel quale espone le caratteristiche dei principati e dei metodi
per mantenerli e conquistarli. L'opera non è ascrivibile ad alcun genere
letterario particolare, in quanto non ha le caratteristiche di un vero e
proprio trattato; se ne è ipotizzata la natura di libriccino a carattere
divulgativo. Già nel Medioevo erano diffusi trattati basati su modello del
principe e venivano chiamati specula principis
(“specchi del principe”). L'intera opera fu composta nella seconda metà del
1513 all'Albergaccio, tranne la dedica a Lorenzo de' Medici e l'ultimo
capitolo, composti pochi anni dopo. Machiavelli, nella Lettera a Francesco
Vettori, manifestò la volontà di dedicare l'opera a Giuliano de' Medici ma,
dopo la morte di questi, la dedicò a Lorenzo de' Medici. L'intenzione era in
ogni caso di dedicare l'opera al detentore del potere nella famiglia Medici,
con la speranza di riacquistare l'incarico di Segretario della Repubblica.
La struttura
e i contenuti
Il Principe è formato da una dedica e da ventisei capitoli di varia
lunghezza; l'ultimo capitolo consiste nell'appello ai de' Medici ad accettare
le tesi espresse nel testo. Gli argomenti sono divisi in sezioni:
·
Nei primi undici
capitoli, Machiavelli distingue tra principati ereditari e nuovi; questi ultimi a loro volta
possono essere misti, aggiunti come
membri allo Stato ereditario di un principe o nuovi del tutto; a loro volta
questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie, oppure basandosi
sulla fortuna e su armi altrui. In questi capitoli Machiavelli distingue anche
tra la crudeltà “bene e male usata”: la prima è quella impiegata solo per
assoluta necessità; la seconda, invece, è quella compiuta per l’esclusivo
vantaggio del tiranno.
·
Nei capitoli XII
e XIV Machiavelli giudica negativamente l’uso degli eserciti mercenari, perché
essi sono infidi e costituiscono una delle cause principali della debolezza
degli Stati italiani.
·
Nei capitoli XV e
XXVI tratta delle qualità che deve possedere un “principe ideale”: la
disponibilità ad imitare i grandi uomini a lui contemporanei o del passato; la
capacità di mostrare la necessità di un governo per il benessere del popolo; il
comando sull'arte della guerra per la sopravvivenza dello stato; la capacità di
comprendere che la forza e la violenza possono essere essenziali per mantenere
stabilità e potere; la prudenza; la saggezza di cercare consigli soltanto
quando è necessario; il rilevante potere di controllo della fortuna attraverso
la virtù (la metafora utilizzata accosta la fortuna ad un fiume, che deve
essere contenuto dagli argini della virtù); la capacità di essere leone, volpe
e centauro (leone forza - volpe astuzia - centauro come capacità di usare la
forza come gli animali e la ragione come l'uomo).
I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
I contenuti
e il problema del genere
I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio derivano dalle carte
“liviane”, cioè dagli appunti a cui Machiavelli affidava le riflessioni
politiche suggeritigli dalla lettura dei primi dieci libri della Storia di Livio. I Discorsi sono dedicati a due amici Zanobi Buondelmonti e Cosimo
Rucellai, due esponenti di un cenacolo di intellettuali che guardavano Machiavelli
come un maestro. L’opera fu divisa in tre libri con diverse tematiche: nel
primo si tratta delle iniziative politiche di Roma; nel secondo delle
iniziative politiche e di espansione dell’Impero; infine, nel terzo si tratta
delle azioni dei singoli cittadini. L’analisi della storia romana offre
continuamente uno spunto per riflessioni sui problemi politici di Firenze e
dell’Italia. Se il Principe può
essere ricondotto ad un preciso genere rinascimentale, il trattato, e si
collega a tutta una tradizione di trattatistica politica umanistica, i Discorsi non rientrano in nessun genere
letterario, in quanto l’opera si presenta come una riflessione sui singoli temi.
Quindi è un opera completamente differente dal Principe.
Il rapporto
tra Discorsi e Principe e l’ideologia politica dell’autore
Una differenza sostanziale
tra le due opere riguarda la differenza di pensiero presente: infatti se nel Principe Machiavelli esaltava la forma
di governa monarchica ed assoluta, celebrando le “virtù” del principe; nei Discorsi lascia trasparire un
avvicinamento alla repubblica, considerandola la forma più alta e preferibile
di organizzazione dello Stato. Questa contraddizione ha causato diverse dispute
fra gli studiosi. La spiegazione più plausibile è che Machiavelli è sempre
stato repubblicano, ma ha dovuto scrivere il Principe a causa della crisi italiana.
Il pensiero
politico nel Principe e nei Discorsi
Teoria e
prassi
Machiavelli non è un
“teorico” che vuole costruire una teoria politica, bensì la vuole applicare
alla realtà storica. Per questo il suo pensiero si presenta come una stretta
fusione di teoria e prassi che coesistono. Alla base della riflessione di
Machiavelli vi è la consapevolezza della crisi che l’Italia sta attraversando,
in quanto gli Stati italiani stanno per perdere la loro indipendenza politica.
Per Machiavelli l’unica soluzione è un principe dalle straordinarie virtù per
salvare la penisola. Nonostante questo sia il pensiero principale, in
Machiavelli sorgono anche altre riflessioni che permettono di sollecitare
l’interesse del lettore.
La politica
come scienza autonoma
Machiavelli è considerato
il fondatore della moderna scienza politica. La teoria politica del Medioevo
era subordinata alla morale, nel senso che il giudizio sull’operato di un
politico era soggetto al criterio del bene e del male. Machiavelli, invece,
rivendica l’autonomia del campo dell’azione politica, in quanto essa possiede delle
proprie leggi specifiche. Questa è una novità eccezionale, in quanto
Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella
politica. Infatti dichiara di voler andare dietro alla verità effettuale delle
cose anziché all’immaginazione di essa.
Il metodo
Inoltre Machiavelli
delinea anche il metodo di questa nuova scienza. Nella trattazione del Principe e dei Discorsi, emerge come il pensiero di Machiavelli dia deduttivo,
cioè sia ricavato per deduzione da principi primi universali e indimostrati.
L’esperienza per Machiavelli può essere di due tipi: quella diretta, ricavata
dalla partecipazione personale alle vicende presenti, e quella ricavata dalla
lettura degli autori antichi. Queste due tipologie Machiavelli li chiama
rispettivamente “esperienza delle cose moderne” e “lezione delle antique”.
La
concezione naturalistica dell’uomo e il principio di imitazione
Alla base di questo modo
di accostarsi alla storia vi è la consapevolezza di Machiavelli di poter
formulare delle vere e proprie leggi traendo spunto dalla storia antica. Nel Proemio dei Discorsi egli constata che l’imitazione degli antichi ai suoi tempi
è molto praticata nelle arti figurative, nella medicina e nel diritto. Quindi
spera che gli uomini di oggi guardino a quei grandi esempi, li prendano a
modelli e si sforzino di riprodurli.
Il giudizio
pessimistico sulla natura umana
Punto di partenza per la
formulazione di tali leggi è una visione crudamente pessimistica dell’uomo come
essere morale. Gli uomini per Machiavelli sono malvagi. In un passo del Principe spiega che sono malvagi perché
sono legati maggiormente alle cose materiali e non ai sentimenti nobili. L’uomo
politico deve agire su questo terreno, non su un terreno ideale. Il principe
non può seguire sempre e solo la virtù, deve sapere essere anche cattivo, dove
lo richiedano le esigenze dello Stato.
L’autonomia
della politica dalla morale
In Machiavelli c’è un
profondo, sofferto travaglio morale. Egli sa bene che certi comportamenti del
principe sono ripugnanti, ma ha il coraggio di distinguere il giudizio politico
da quello morale: questi comportamenti che sono “malvagi” secondo la morale,
sono “buoni” in politica. Viceversa altri
comportamenti sono “cattivi” in politica, perché indebolirebbero lo
Stato e comprometterebbero la sua sicurezza. Tuttavia Machiavelli non è
giustifica questi comportamenti malvagi, semplicemente constata che certi
comportamenti , buoni o cattivi che siano, sono indispensabili per conquistare
e mantenere lo Stato. Compire atti malvagi sono una triste necessità a cui il
politico si deve piegare, perché deve fare i conti con la reale natura dell’uomo.
A questo punto Machiavelli distingue tra “principi e “tiranni”: principe è chi
opera a vantaggio dello Stato; tiranno è chi è crudele senza necessità e solo a
sua vantaggio.
Lo Stato e
il bene comune
Solo lo Stato può
costituire un rimedio alla malvagità dell’uomo. La durezza e la violenza del
principe devono sempre avere per fine il bene comune, cioè la salvaguardia
della convivenza civile. Per mantenere lo Stato sono necessarie certe virtù
civili, l’amore di patria, l’amore per la libertà, la solidarietà, l’onestà,
che costituiscono la base del vivere collettivo. Ma per mantenere queste virtù
occorrono delle istituzioni: la religione, le leggi, le milizie. A Machiavelli
non interessa la religione nella sua dimensione concettuale, ma solo come instrumentum regni, come “strumento di
governo”. La religione, quindi, obbliga i cittadini a rispettarsi gli uni con
gli altri. Questa era la concezione che i Romani avevano della religione e che
Machiavelli condivideva. Le milizie sono le forze dello stato, ma devono essere
composte di cittadini. La forma di governo che meglio rispecchia questa idea di
Stato ordinato e sicuro è quella repubblicana.
Virtù e
fortuna
Si delineano così due
concezioni della virtù: la virtù eccezionale del singolo, del politico-eroe,
che brilla nei momenti di eccezionale gravità, e la virtù del buon cittadino,
che opera entro stabili istituzioni dello Stato. Machiavelli tuttavia ha una
visione eroica dell’uomo ma, al contempo, ne delimita i limiti. Questi limiti
sono causati dalla fortuna, che è il frutto di una concezione laica che
riconosce nel mondo la presenza della provvidenza. Dalla tradizione umanistica
Machiavelli riprende la convinzione che l’uomo può fronteggiare vittoriosamente
la fortuna. Per Machiavelli vi sono vari modi con cui l’uomo può contrastare la
fortuna:
·
con l’”occasione”,
cioè con lo stimolo ad una virtù eccezionale;
·
con la
previsione;
·
con la virtù, che
è un insieme di diverse qualità:
o la perfetta conoscenza delle leggi generali dell’agire
politico;
o la capacità di applicare queste leggi ai casi concreti
e particolari;
o la decisione, l’energia, il coraggio nel mettere in
pratica ciò che si è disegnato.
·
con la duttilità
dell’adattare il proprio comportamento alle varie esigenze oggettive che via
via si presentano, alle varie situazioni, ai vari contesti in ci si è obbligati
ad operare.
Realismo
“scientifico" e utopia profetica
Le idee politiche di
Machiavelli si organizzano in un sistema logico che possiede i caratteri di un
vero e proprio sistema scientifico, che deriva dalla necessità di interessi
pratici immediati. Questi interessi sono un potente stimolo alla formazione del
pensiero scientifico, perché inducano il pensatore ad aderire alla verità
effettuale della cosa. L’aderenza alla verità effettuale avrebbe dovuto far
percepire a Machiavelli l’effettiva crisi italiana inducendolo al pessimismo e
allo scetticismo, però la passione politica ha il sopravvento sul freddo
calcolare. Nella parte finale del Principe,
all’analisi scientifica delle leggi della politica si sostituisce un
atteggiamento profetico e messianico, pervaso da un vibrante accento
passionale. Machiavelli quindi descrive le fondamenta teoriche di uno Stato
moderno, unito, forte, libero dalle spinte disgregatrici del particolarismo
feudale e municipale, basato su istituzioni stabili, su buone leggi, su un
esercito regolare e soprattutto sul consenso dei cittadini; ma le condizioni
per dare vita a tutto questo in Italia non esistevano più.
La lingua e
lo stile
L’originalità sconvolgente
del pensiero di Machiavelli si riflette sullo stile del suo argomentare. È uno
stile profondamente diverso da quello del genere trattatistico rinascimentale.
Quest’ultimo tende al sublime, impiegando tutte le risorse della retorica
utilizzando un lessico scelto e aulico e costruendo un periodare complesso,
ricco di subordinate e molto strutturato. Machiavelli rifiuta esplicitamente
questo modello.
Le Istorie fiorentine
Machiavelli riceve dallo
Studio fiorentino l’incarico di scrivere una storia di Firenze. L’opera viene
consegnata al cardinale Giulio de’ Medici. Le Istorie fiorentine sono scritti in lingua volgare e sono divise in
otto libri: nel primo vi è una sintesi della storia d’Italia dalla caduta
dell’Impero romano fino al 1434; i libri II-IV narrano la storia di Firenze
sono al 1434; i libri V-VIII si concentrano più minutamente sulla storia di
Firenze e dell’Italia fino alla morte di Lorenzo il Magnifico. A Machiavelli
non interessa una semplice ricostruzione cronachistica dei fatti, ma la sua
narrazione storia è tutta impregnata dai suoi interessi politici. Egli risale
al passato, ma guarda al presente, ai suoi problemi e ai suoi conflitti. Per
conservare l’indipendenza del giudizio ricorre ad un espediente, l’inserzione
di discorsi fittizi, attribuiti ai personaggi storici del passato.
La Mandragola
Il testo letterario più importante di Machiavelli è
una commedia, la Mandragola, che è un
autentico capolavoro. Fu scritta a poca distanza cronologica dia primi
esemplari della commedia classicheggiante. Risale quindi al periodo in cui
Machiavelli era forzatamente escluso dall’attività politica e riflette lo stato
d’animo risentito e amaro di quegli anni. Fu forse rappresentata per le nozze
di Lorenzo de’ medici ed ebbe un notevole successo. L’intreccio ricalca gli
schemi propri del teatro comico del tempo: una vicenda d’amore contrastato, che
si risolve felicemente grazie all’intervento di uno scaltro parassita, sul
modello della commedia latina, e la vicenda di uno sciocco beffato, che risale
alla novellistica toscana. La comicità di Machiavelli è cupa, amara, quasi
sinistra. L’impostazione del testo è quindi fortemente problematica.
Guicciardini
La vita
La formazione e la carriera
pubblica
Francesco Guicciardini nacque, da una famiglia della
ricca oligarchia, nel 1483 a Firenze. Soggiornò a Ferrara per due anni per poi
continuare gli studi a Padova. Rientrato a Firenze vi esercitò, l’incarico di
istituzioni di diritto civile. Francesco si sposa contro il volere paterno con
un appartenente ad una famiglia che si opponeva a Soderini. Ma Guicciardini
considerava soprattutto il prestigio goduto a Firenze dai parenti della moglie.
Dopo il matrimonio iniziò la sua carriera pubblica. Divenne ambasciatore del re
di Spagna. Dall’esperienza spagnola nasce la Relazione di Spagna, un’analisi lucida e nitida delle condizioni
sociali e politiche della penisola iberica. Nel 1513 torna a Firenze, dove
erano rientrati i Medici. Alla morte di Leone X si trova a Parma a fronteggiare
l’assedio dei Francesi. Nel 1523 conferma le proprie doti diplomatiche e mostra
uno spiccato senso di giustizia sociale. Per contrastare lo strapotere di Carlo
V, propugnò un alleanza fra gli Stati italiani e la Francia. L’accordo venne
sottoscritto a Cognac ma la Lega fu ben presto sconfitta; nel 1527 le truppe
imperiali saccheggiavano Rom, mentre a Firenze veniva instaurata la terza e
ultima Repubblica.
L’allontanamento dalla
politica e gli ultimi incarichi diplomatici
Coinvolto in queste vicende preferì rifugiarsi nella sua
villa di Finocchieto. Qui compose due orazioni e una lettera, in cui espone le
accuse che potevano essere mosse al suo operato e le confuta. Il suo pessimismo
aveva tratto decisive conferme dalle ultime e tragiche vicende. Dopo la
confisca dei beni, lasciò Firenze per mettersi di nuovo al servizio di Clemente
VII, che gli offrì un incarico diplomatico a Bologna. Con il ritorno dei
Medici, rientrò nella sua città, dove fu scelto come consigliere del granduca
Alessandro; il successore di questi non gli riconfermò invece la fiducia,
lasciandolo in disparte. Guicciardini si ritirò allora nella villa di Arcetri,
dove trascorse gli ultimi anni dedicandosi all’attività letteraria. Morì nel
1540.
Le opere minori
Le Storie fiorentine e i Discorsi
politici
Le Storie
fiorentine abbracciano il periodo compreso fra il tumulto dei Ciompi e la
battaglia della Ghiara d’Adda. L’autore si preoccupa di indagare le cause degli
eventi, mettendo in risalto le figure dei protagonisti con un interesse volto
ad illustrare le contraddizioni del presente. Nei Discorsi politici Guicciardini valuta le forme istituzionali del
governo cittadino: la soluzione repubblicano e il principato, ristabilitosi con
il ritorno dei Medici. Questi scritti presentano un’impostazione pragmatica,
che muove da quella che Machiavelli aveva definito la realtà effettuale delle
cose.
Il Dialogo del reggimento di Firenze
Un’altra opera programmatica è il Dialogo del reggimento di Firenze, in due libri. In quest’opera
Guicciardini immagina una discussione svoltasi a Firenze due anni dopo la morte
di Lorenzo il Magnifico. Gli interlocutori sono il padre dello scrittore,
Paolantonio Soderini, Pier Capponi e Bernardo del Nero. Quest’ultimo dimostra
ai tre amici quanto illusoria sia la loro fede repubblicana, sostenendo che la
democrazia presenta più numerosi e gravi difetti della monarchia. Emerge sin
d’ora la convinzione che né in politica, né in morale si possono dare delle
regole assolute, valide in ogni tempo ed in ogni luogo.
Le Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli
Posteriori sono le Considerazioni
intorno ai “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio” del Machiavelli”. Attraverso
un’analisi rigorosa dell’opera del segretario fiorentino, Guicciardini cerca di
dimostrare che i suoi ragionamenti sono in realtà infondati ed arbitrari. Il
dissenso non si riferisce solo ai singoli momenti della trattazione, ma investe
i fondamenti stessi della filosofia della storia, su cui Machiavelli basava il
suo “classicismo”. La storia romana non conserva, per Guicciardini, alcun
valore esemplare, dal momento che non ci sono leggi e modelli assoluti, che
permettano di comprendere e di valutare la realtà.
I Ricordi
La visione della realtà
La concezione della realtà e della storia trova la sua
verifica più significativa e convincente nei Ricordi, in cui si vede come Guicciardini respinga qualunque
visione utopica, consolatrice o edulcorata della realtà. Guicciardini tende a
giudicare positivamente la fede perché il tempo determina la fortuna degli
ostinati. Sotto gli altri aspetti la fede è considerata con tono freddo,
distaccato, quasi ironico. Parole molto dure sono rivolte anche all’istituzione
ecclesiastica ed agli uomini di Chiesa. La mancanza di una visione
provvidenziale della storia porta Guicciardini a sottolineare la varietà
infinita di casi ed accidenti, di fronte ai quali gli uomini sono impotenti e a
nulla valgono le costruzioni astratte e teoriche, inadatte a penetrare e spiegare
una realtà in perenne evoluzione. Per riuscire a comprenderla è necessaria la
“discrezione”, cioè la capacità di distinguere e decidere volta per volta sfruttando la saggezza che
viene dall’esperienza.
La genesi e i caratteri
dell’opera
I Ricordi
accompagnano vari periodi dell’attività di Guicciardini. Si tratta di “esempi”,
che possono offrire un utile insegnamento ma che non hanno, tuttavia, una
validità assoluta, in quanto la realtà non obbedisce a leggi universali per le
infinite possibilità offerte dal reale, la forma della conoscenza non può
essere ch limitata e relativa. Di qui deriva anche la struttura del libro, in
cui i ricordi si susseguono indipendentemente l’uno dall’altro, senza fondersi
in un quadro complessivo e unitario. I Ricordi
sono 221. La redazione del 1530 rappresenta l’approdo e la conclusione
degli interventi correttivi di Guicciardini.
I Ricordi come “anti-trattato” e l’elogio del “particolare”
Il libro fornisce un ritratto completo e fedele dello
scrittore. La frantumazione del reale determina una più difficile e sofferta
tensione conoscitiva, alla quale corrisponde la struttura frammentaria
dell’opera: i Ricordi sono una specie
di “anti-trattato”, in quanto rinunciano a una compiutezza sistematica e
totalizzante del discorso. La visione disincantata della realtà porta lo
scrittore all’elogio del “particolare”, dell’interesse personale, come scopo
ragionevolmente perseguibile dal savio. La ricerca del bene individuale è ben
più che l’ansia di ottenere qualche pecuniario. Quelli che lo intendono così in
realtà non conoscono bene quale sia il suo interesse. Le critiche che gli
vennero rivolte quando difese Alessandro de’ Medici dinanzi a Carlo V e dopo
l’uccisione di Alessandro, favorì l’elezione di Cosimo, erano a suo parere totalmente
ingiustificate. L’interesse era quello di non rinunciare all’attività politica,
essendo questo l’unico modo per poter giovare alla città. Il “particolare” sarà
quindi da intendere come un elemento essenziale, una forma o una categoria
della conoscenza necessaria per stabilire o meno l’opportunità dell’azione.
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