giovedì 11 agosto 2016

Machiavelli e Guicciardini


Machiavelli


La vita

L’attività politica
Niccolò Machiavelli nacque a Firenze nel 1469da una famiglia borghese. Ebbe un’educazione umanistica, basata sui classici latini, ma non apprese il greco. Faceva parte degli oppositori di Savoranola, un partito politico della città. Divenne segretario della seconda cancelleria del Comune. I suoi incarichi gli conferivano grandi responsabilità nella politica della Repubblica. Da questi incarichi ottenne poi anche spunto per le riflessioni, le teorie e le analisi trasferite poi nelle sue opere. Presso il re Luigi XII cominciò a conoscere la forte monarchia francese e la salda struttura di quello Stato Assoluto moderno, per cui ebbe sempre ammirazione. Compì una missione presso Cesare Borgia (figlio di papa Alessandro VI) e restò molto colpito dalla sua figura di politico audace e spregiudicato. Nel Principe la figura di Cesare Borgia viene assunta come esempio della “virtù” che deve avere un nuovo principe. Durante una successiva missione presso Cesare Borgia, Machiavelli potè conoscere la sua freddezza e la sua decisione spietata. Dopo la morte di papa Alessandro VI e del suo successore Machiavelli, in un conclave, assistette alla rovina della politica di Cesare Borgia che dopo questa morì.
La riflessione politica e le missioni diplomatiche
Nel frattempo Machiavelli si dedicò anche all’attività letteraria e scrisse in versi una cronaca delle vicende italiane. In questi anni Machiavelli si adoperò per convincere i maggiorenti della città a creare una milizia comunale e si recò nelle campagne per arruolare soldati, in quanto sosteneva che bisognava evitare le infide milizie mercenarie e bisognava creare un esercito permanente. Costituita così la magistratura dei Nove, Machiavelli ne divenne segretario. Durante un viaggio in Svizzera e in Germania restò ammirato dalla compattezza delle comunità di quei popoli e dalle loro forti tradizione civili e guerriere, che ricordavano i primi tempi della Roma repubblicana. Nel 1511 scoppiò uno scontro tra la Francia e la Lega Santa, che vide la caduta della Repubblica, il ritorno dei Medici a Firenze e il licenziamento di Machiavelli da tutti i suoi incarichi.
L’esclusione dalla vita politica
L’esclusione dalla vita politica fu per lui un colpo durissimo. Fu anche sospettato di aver preso parte ad una congiura antimedicea, torturato e tenuto in prigione per quindici giorni. Quando uscì si ritirò a San Casciano dove scrisse il Principe, la Mandragola e iniziò i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Tuttavia non riusciva a stare lontano dalla vita politica e per questo cercò un riavvicinamento con i Medici, dedicando il Principe a Lorenzo de’ Medici. Nonostante ciò, i Medici continuarono a guardarlo con diffidenza. Quando morì Lorenzo, Machiavelli riuscì a tornare a Firenze il cui governo era stato assunto dal cardinale Giulio de’ Medici. Fu proprio a Giulio de’ Medici che Machiavelli dedicò le Istorie fiorentine. Nel 1527, però, i Medici vennero cacciati nuovamente da Firenze e si riaffermò la Repubblica: Machiavelli però venne guardato con sospetto e ammalatosi all’improvviso, morì nel 1527.

L’epistolario

Solo parzialmente ci sono pervenute le lettere “familiari” che Machiavelli scrisse ad amici e conoscenti. In esse si alternano argomenti e toni vari: vi si trovano riflessioni di teoria politica, ma anche scherzi, sfoghi di umore, descrizioni di figure e macchiette, spunti di novelle. Tra tutte queste spiccano le lettere scritte a Francesco Vettori precedentemente alla perdita degli incarichi politici. Sono la riflessione sulla situazione politica, ma anche spunti autobiografici e resoconti della propria vita quotidiana. Famosissima è quella del 10 dicembre 1513, in cui Machiavelli descrive la sua giornata di esilio all’Albergaccio, le futili occupazioni del mattino e del pomeriggio, a cui si contrappone lo studio serale dei classici. Questa lettera è anche importante perché fornisce l’indicazione dell’avvenuta composizione del Principe. Fra le lettere fanno anche ricordati i cosiddetti Ghibizzi al Soderini, un abbozzo di epistola indirizzata al nipote del gonfaloniere fiorentino, Giovan Battista Soderini. È importante perché contiene alcuni punti fondamentali del pensiero di Machiavelli: la necessità di adattare il proprio modo di procedere con i tempi, seguendo la Fortuna, la conoscenza della realtà che può avvenire sia direttamente o anche attraverso i libri.

Gli scritti politici del periodo della segreteria (1498-1512)

Le Legazioni e commissarie
Tra gli scritti politici di questo periodo vanno distinti innanzitutto quelli ufficiali, le cosiddette Legazioni e commissarie, cioè le relazioni e i dispacci inviati al governo fiorentino durante i vari incarichi. Sono testi interessanti, perché si può cogliere il pensiero di Machiavelli e si vedono gli schemi di analisi delle situazioni storiche, l’affermazione del principio dell’esperienza come fonte della conoscenza, il riferimento agli esempi Romani. Anche in  quelli che dovrebbero essere documenti ufficiali, emerge la vigorosa personalità intellettuale dello scrittore. I più interessanti di questi documenti sono quelli che si riferiscono ai momenti salienti della politica di Cesare Borgia.
Scritti sulla politica italiana
Ci sono giunte anche altri brevi scritti politici, meno ufficiali. Il primo è il Discorso sopra le cose di Pisa, dove si sostiene la necessità della forza per sottomettere la città che si era ribellata al dominio fiorentino. In un’altra opera Machiavelli consiglia di non cercare la vita di mezzo per le soluzioni delle questioni politiche, ma di prendere decisioni rapide come facevano gli antichi Romani.
Il Ritratto delle cose della Magna e il Ritratto delle cose di Francia
Vi sono poi gli scritti in cui Machiavelli raccoglie le riflessioni suscitate dalle sue missioni in Germania e in Francia. La Francia per Machiavelli diventa il modello di uno stato moderno, solido, unito; mentre il modello germanico, frazionato in feudi e comunità cittadine, gli appare disunito e debole.

Il Principe e i Discorsi

Il Principe
Il genere e i precedenti dell’opera
Il Principe è un trattato di dottrina politica scritto da Niccolò Machiavelli, nel quale espone le caratteristiche dei principati e dei metodi per mantenerli e conquistarli. L'opera non è ascrivibile ad alcun genere letterario particolare, in quanto non ha le caratteristiche di un vero e proprio trattato; se ne è ipotizzata la natura di libriccino a carattere divulgativo. Già nel Medioevo erano diffusi trattati basati su modello del principe e venivano chiamati specula principis (“specchi del principe”). L'intera opera fu composta nella seconda metà del 1513 all'Albergaccio, tranne la dedica a Lorenzo de' Medici e l'ultimo capitolo, composti pochi anni dopo. Machiavelli, nella Lettera a Francesco Vettori, manifestò la volontà di dedicare l'opera a Giuliano de' Medici ma, dopo la morte di questi, la dedicò a Lorenzo de' Medici. L'intenzione era in ogni caso di dedicare l'opera al detentore del potere nella famiglia Medici, con la speranza di riacquistare l'incarico di Segretario della Repubblica.
La struttura e i contenuti
Il Principe è formato da una dedica e da ventisei capitoli di varia lunghezza; l'ultimo capitolo consiste nell'appello ai de' Medici ad accettare le tesi espresse nel testo. Gli argomenti sono divisi in sezioni:
·         Nei primi undici capitoli, Machiavelli distingue tra principati ereditari  e nuovi; questi ultimi a loro volta possono essere misti, aggiunti come membri allo Stato ereditario di un principe o nuovi del tutto; a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie, oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui. In questi capitoli Machiavelli distingue anche tra la crudeltà “bene e male usata”: la prima è quella impiegata solo per assoluta necessità; la seconda, invece, è quella compiuta per l’esclusivo vantaggio del tiranno.
·         Nei capitoli XII e XIV Machiavelli giudica negativamente l’uso degli eserciti mercenari, perché essi sono infidi e costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani.
·         Nei capitoli XV e XXVI tratta delle qualità che deve possedere un “principe ideale”: la disponibilità ad imitare i grandi uomini a lui contemporanei o del passato; la capacità di mostrare la necessità di un governo per il benessere del popolo; il comando sull'arte della guerra per la sopravvivenza dello stato; la capacità di comprendere che la forza e la violenza possono essere essenziali per mantenere stabilità e potere; la prudenza; la saggezza di cercare consigli soltanto quando è necessario; il rilevante potere di controllo della fortuna attraverso la virtù (la metafora utilizzata accosta la fortuna ad un fiume, che deve essere contenuto dagli argini della virtù); la capacità di essere leone, volpe e centauro (leone forza - volpe astuzia - centauro come capacità di usare la forza come gli animali e la ragione come l'uomo).
I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
I contenuti e il problema del genere
I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio derivano dalle carte “liviane”, cioè dagli appunti a cui Machiavelli affidava le riflessioni politiche suggeritigli dalla lettura dei primi dieci libri della Storia di Livio. I Discorsi sono dedicati a due amici Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, due esponenti di un cenacolo di intellettuali che guardavano Machiavelli come un maestro. L’opera fu divisa in tre libri con diverse tematiche: nel primo si tratta delle iniziative politiche di Roma; nel secondo delle iniziative politiche e di espansione dell’Impero; infine, nel terzo si tratta delle azioni dei singoli cittadini. L’analisi della storia romana offre continuamente uno spunto per riflessioni sui problemi politici di Firenze e dell’Italia. Se il Principe può essere ricondotto ad un preciso genere rinascimentale, il trattato, e si collega a tutta una tradizione di trattatistica politica umanistica, i Discorsi non rientrano in nessun genere letterario, in quanto l’opera si presenta come una riflessione sui singoli temi. Quindi è un opera completamente differente dal Principe.    
Il rapporto tra Discorsi e Principe e l’ideologia politica dell’autore
Una differenza sostanziale tra le due opere riguarda la differenza di pensiero presente: infatti se nel Principe Machiavelli esaltava la forma di governa monarchica ed assoluta, celebrando le “virtù” del principe; nei Discorsi lascia trasparire un avvicinamento alla repubblica, considerandola la forma più alta e preferibile di organizzazione dello Stato. Questa contraddizione ha causato diverse dispute fra gli studiosi. La spiegazione più plausibile è che Machiavelli è sempre stato repubblicano, ma ha dovuto scrivere il Principe a causa della crisi italiana. 
Il pensiero politico nel Principe e nei Discorsi
Teoria e prassi
Machiavelli non è un “teorico” che vuole costruire una teoria politica, bensì la vuole applicare alla realtà storica. Per questo il suo pensiero si presenta come una stretta fusione di teoria e prassi che coesistono. Alla base della riflessione di Machiavelli vi è la consapevolezza della crisi che l’Italia sta attraversando, in quanto gli Stati italiani stanno per perdere la loro indipendenza politica. Per Machiavelli l’unica soluzione è un principe dalle straordinarie virtù per salvare la penisola. Nonostante questo sia il pensiero principale, in Machiavelli sorgono anche altre riflessioni che permettono di sollecitare l’interesse del lettore.  
La politica come scienza autonoma
Machiavelli è considerato il fondatore della moderna scienza politica. La teoria politica del Medioevo era subordinata alla morale, nel senso che il giudizio sull’operato di un politico era soggetto al criterio del bene e del male. Machiavelli, invece, rivendica l’autonomia del campo dell’azione politica, in quanto essa possiede delle proprie leggi specifiche. Questa è una novità eccezionale, in quanto Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica. Infatti dichiara di voler andare dietro alla verità effettuale delle cose anziché all’immaginazione di essa. 
Il metodo
Inoltre Machiavelli delinea anche il metodo di questa nuova scienza. Nella trattazione del Principe e dei Discorsi, emerge come il pensiero di Machiavelli dia deduttivo, cioè sia ricavato per deduzione da principi primi universali e indimostrati. L’esperienza per Machiavelli può essere di due tipi: quella diretta, ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti, e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi. Queste due tipologie Machiavelli li chiama rispettivamente “esperienza delle cose moderne” e “lezione delle antique”. 
La concezione naturalistica dell’uomo e il principio di imitazione
Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi è la consapevolezza di Machiavelli di poter formulare delle vere e proprie leggi traendo spunto dalla storia antica. Nel Proemio dei Discorsi egli constata che l’imitazione degli antichi ai suoi tempi è molto praticata nelle arti figurative, nella medicina e nel diritto. Quindi spera che gli uomini di oggi guardino a quei grandi esempi, li prendano a modelli e si sforzino di riprodurli.
Il giudizio pessimistico sulla natura umana
Punto di partenza per la formulazione di tali leggi è una visione crudamente pessimistica dell’uomo come essere morale. Gli uomini per Machiavelli sono malvagi. In un passo del Principe spiega che sono malvagi perché sono legati maggiormente alle cose materiali e non ai sentimenti nobili. L’uomo politico deve agire su questo terreno, non su un terreno ideale. Il principe non può seguire sempre e solo la virtù, deve sapere essere anche cattivo, dove lo richiedano le esigenze dello Stato.
L’autonomia della politica dalla morale
In Machiavelli c’è un profondo, sofferto travaglio morale. Egli sa bene che certi comportamenti del principe sono ripugnanti, ma ha il coraggio di distinguere il giudizio politico da quello morale: questi comportamenti che sono “malvagi” secondo la morale, sono “buoni” in politica. Viceversa altri  comportamenti sono “cattivi” in politica, perché indebolirebbero lo Stato e comprometterebbero la sua sicurezza. Tuttavia Machiavelli non è giustifica questi comportamenti malvagi, semplicemente constata che certi comportamenti , buoni o cattivi che siano, sono indispensabili per conquistare e mantenere lo Stato. Compire atti malvagi sono una triste necessità a cui il politico si deve piegare, perché deve fare i conti con la reale natura dell’uomo. A questo punto Machiavelli distingue tra “principi e “tiranni”: principe è chi opera a vantaggio dello Stato; tiranno è chi è crudele senza necessità e solo a sua vantaggio. 
Lo Stato e il bene comune
Solo lo Stato può costituire un rimedio alla malvagità dell’uomo. La durezza e la violenza del principe devono sempre avere per fine il bene comune, cioè la salvaguardia della convivenza civile. Per mantenere lo Stato sono necessarie certe virtù civili, l’amore di patria, l’amore per la libertà, la solidarietà, l’onestà, che costituiscono la base del vivere collettivo. Ma per mantenere queste virtù occorrono delle istituzioni: la religione, le leggi, le milizie. A Machiavelli non interessa la religione nella sua dimensione concettuale, ma solo come instrumentum regni, come “strumento di governo”. La religione, quindi, obbliga i cittadini a rispettarsi gli uni con gli altri. Questa era la concezione che i Romani avevano della religione e che Machiavelli condivideva. Le milizie sono le forze dello stato, ma devono essere composte di cittadini. La forma di governo che meglio rispecchia questa idea di Stato ordinato e sicuro è quella repubblicana.
Virtù e fortuna
Si delineano così due concezioni della virtù: la virtù eccezionale del singolo, del politico-eroe, che brilla nei momenti di eccezionale gravità, e la virtù del buon cittadino, che opera entro stabili istituzioni dello Stato. Machiavelli tuttavia ha una visione eroica dell’uomo ma, al contempo, ne delimita i limiti. Questi limiti sono causati dalla fortuna, che è il frutto di una concezione laica che riconosce nel mondo la presenza della provvidenza. Dalla tradizione umanistica Machiavelli riprende la convinzione che l’uomo può fronteggiare vittoriosamente la fortuna. Per Machiavelli vi sono vari modi con cui l’uomo può contrastare la fortuna:
·         con l’”occasione”, cioè con lo stimolo ad una virtù eccezionale;
·         con la previsione;
·         con la virtù, che è un insieme di diverse qualità:
o    la perfetta conoscenza delle leggi generali dell’agire politico;
o    la capacità di applicare queste leggi ai casi concreti e particolari;
o    la decisione, l’energia, il coraggio nel mettere in pratica ciò che si è disegnato.
·         con la duttilità dell’adattare il proprio comportamento alle varie esigenze oggettive che via via si presentano, alle varie situazioni, ai vari contesti in ci si è obbligati ad operare. 
Realismo “scientifico" e utopia profetica
Le idee politiche di Machiavelli si organizzano in un sistema logico che possiede i caratteri di un vero e proprio sistema scientifico, che deriva dalla necessità di interessi pratici immediati. Questi interessi sono un potente stimolo alla formazione del pensiero scientifico, perché inducano il pensatore ad aderire alla verità effettuale della cosa. L’aderenza alla verità effettuale avrebbe dovuto far percepire a Machiavelli l’effettiva crisi italiana inducendolo al pessimismo e allo scetticismo, però la passione politica ha il sopravvento sul freddo calcolare. Nella parte finale del Principe, all’analisi scientifica delle leggi della politica si sostituisce un atteggiamento profetico e messianico, pervaso da un vibrante accento passionale. Machiavelli quindi descrive le fondamenta teoriche di uno Stato moderno, unito, forte, libero dalle spinte disgregatrici del particolarismo feudale e municipale, basato su istituzioni stabili, su buone leggi, su un esercito regolare e soprattutto sul consenso dei cittadini; ma le condizioni per dare vita a tutto questo in Italia non esistevano più.  
La lingua e lo stile
L’originalità sconvolgente del pensiero di Machiavelli si riflette sullo stile del suo argomentare. È uno stile profondamente diverso da quello del genere trattatistico rinascimentale. Quest’ultimo tende al sublime, impiegando tutte le risorse della retorica utilizzando un lessico scelto e aulico e costruendo un periodare complesso, ricco di subordinate e molto strutturato. Machiavelli rifiuta esplicitamente questo modello.
Le Istorie fiorentine
Machiavelli riceve dallo Studio fiorentino l’incarico di scrivere una storia di Firenze. L’opera viene consegnata al cardinale Giulio de’ Medici. Le Istorie fiorentine sono scritti in lingua volgare e sono divise in otto libri: nel primo vi è una sintesi della storia d’Italia dalla caduta dell’Impero romano fino al 1434; i libri II-IV narrano la storia di Firenze sono al 1434; i libri V-VIII si concentrano più minutamente sulla storia di Firenze e dell’Italia fino alla morte di Lorenzo il Magnifico. A Machiavelli non interessa una semplice ricostruzione cronachistica dei fatti, ma la sua narrazione storia è tutta impregnata dai suoi interessi politici. Egli risale al passato, ma guarda al presente, ai suoi problemi e ai suoi conflitti. Per conservare l’indipendenza del giudizio ricorre ad un espediente, l’inserzione di discorsi fittizi, attribuiti ai personaggi storici del passato.
La Mandragola
Il testo letterario più importante di Machiavelli è una commedia, la Mandragola, che è un autentico capolavoro. Fu scritta a poca distanza cronologica dia primi esemplari della commedia classicheggiante. Risale quindi al periodo in cui Machiavelli era forzatamente escluso dall’attività politica e riflette lo stato d’animo risentito e amaro di quegli anni. Fu forse rappresentata per le nozze di Lorenzo de’ medici ed ebbe un notevole successo. L’intreccio ricalca gli schemi propri del teatro comico del tempo: una vicenda d’amore contrastato, che si risolve felicemente grazie all’intervento di uno scaltro parassita, sul modello della commedia latina, e la vicenda di uno sciocco beffato, che risale alla novellistica toscana. La comicità di Machiavelli è cupa, amara, quasi sinistra. L’impostazione del testo è quindi fortemente problematica.

Guicciardini


La vita

La formazione e la carriera pubblica
Francesco Guicciardini nacque, da una famiglia della ricca oligarchia, nel 1483 a Firenze. Soggiornò a Ferrara per due anni per poi continuare gli studi a Padova. Rientrato a Firenze vi esercitò, l’incarico di istituzioni di diritto civile. Francesco si sposa contro il volere paterno con un appartenente ad una famiglia che si opponeva a Soderini. Ma Guicciardini considerava soprattutto il prestigio goduto a Firenze dai parenti della moglie. Dopo il matrimonio iniziò la sua carriera pubblica. Divenne ambasciatore del re di Spagna. Dall’esperienza spagnola nasce la Relazione di Spagna, un’analisi lucida e nitida delle condizioni sociali e politiche della penisola iberica. Nel 1513 torna a Firenze, dove erano rientrati i Medici. Alla morte di Leone X si trova a Parma a fronteggiare l’assedio dei Francesi. Nel 1523 conferma le proprie doti diplomatiche e mostra uno spiccato senso di giustizia sociale. Per contrastare lo strapotere di Carlo V, propugnò un alleanza fra gli Stati italiani e la Francia. L’accordo venne sottoscritto a Cognac ma la Lega fu ben presto sconfitta; nel 1527 le truppe imperiali saccheggiavano Rom, mentre a Firenze veniva instaurata la terza e ultima Repubblica.
L’allontanamento dalla politica e gli ultimi incarichi diplomatici
Coinvolto in queste vicende preferì rifugiarsi nella sua villa di Finocchieto. Qui compose due orazioni e una lettera, in cui espone le accuse che potevano essere mosse al suo operato e le confuta. Il suo pessimismo aveva tratto decisive conferme dalle ultime e tragiche vicende. Dopo la confisca dei beni, lasciò Firenze per mettersi di nuovo al servizio di Clemente VII, che gli offrì un incarico diplomatico a Bologna. Con il ritorno dei Medici, rientrò nella sua città, dove fu scelto come consigliere del granduca Alessandro; il successore di questi non gli riconfermò invece la fiducia, lasciandolo in disparte. Guicciardini si ritirò allora nella villa di Arcetri, dove trascorse gli ultimi anni dedicandosi all’attività letteraria. Morì nel 1540.  

Le opere minori

Le Storie fiorentine e i Discorsi politici
Le Storie fiorentine abbracciano il periodo compreso fra il tumulto dei Ciompi e la battaglia della Ghiara d’Adda. L’autore si preoccupa di indagare le cause degli eventi, mettendo in risalto le figure dei protagonisti con un interesse volto ad illustrare le contraddizioni del presente. Nei Discorsi politici Guicciardini valuta le forme istituzionali del governo cittadino: la soluzione repubblicano e il principato, ristabilitosi con il ritorno dei Medici. Questi scritti presentano un’impostazione pragmatica, che muove da quella che Machiavelli aveva definito la realtà effettuale delle cose.
Il Dialogo del reggimento di Firenze
Un’altra opera programmatica è il Dialogo del reggimento di Firenze, in due libri. In quest’opera Guicciardini immagina una discussione svoltasi a Firenze due anni dopo la morte di Lorenzo il Magnifico. Gli interlocutori sono il padre dello scrittore, Paolantonio Soderini, Pier Capponi e Bernardo del Nero. Quest’ultimo dimostra ai tre amici quanto illusoria sia la loro fede repubblicana, sostenendo che la democrazia presenta più numerosi e gravi difetti della monarchia. Emerge sin d’ora la convinzione che né in politica, né in morale si possono dare delle regole assolute, valide in ogni tempo ed in ogni luogo.
Le Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli
Posteriori sono le Considerazioni intorno ai “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio” del Machiavelli”. Attraverso un’analisi rigorosa dell’opera del segretario fiorentino, Guicciardini cerca di dimostrare che i suoi ragionamenti sono in realtà infondati ed arbitrari. Il dissenso non si riferisce solo ai singoli momenti della trattazione, ma investe i fondamenti stessi della filosofia della storia, su cui Machiavelli basava il suo “classicismo”. La storia romana non conserva, per Guicciardini, alcun valore esemplare, dal momento che non ci sono leggi e modelli assoluti, che permettano di comprendere e di valutare la realtà.

I Ricordi

La visione della realtà
La concezione della realtà e della storia trova la sua verifica più significativa e convincente nei Ricordi, in cui si vede come Guicciardini respinga qualunque visione utopica, consolatrice o edulcorata della realtà. Guicciardini tende a giudicare positivamente la fede perché il tempo determina la fortuna degli ostinati. Sotto gli altri aspetti la fede è considerata con tono freddo, distaccato, quasi ironico. Parole molto dure sono rivolte anche all’istituzione ecclesiastica ed agli uomini di Chiesa. La mancanza di una visione provvidenziale della storia porta Guicciardini a sottolineare la varietà infinita di casi ed accidenti, di fronte ai quali gli uomini sono impotenti e a nulla valgono le costruzioni astratte e teoriche, inadatte a penetrare e spiegare una realtà in perenne evoluzione. Per riuscire a comprenderla è necessaria la “discrezione”, cioè la capacità di distinguere e decidere  volta per volta sfruttando la saggezza che viene dall’esperienza.
La genesi e i caratteri dell’opera
I Ricordi accompagnano vari periodi dell’attività di Guicciardini. Si tratta di “esempi”, che possono offrire un utile insegnamento ma che non hanno, tuttavia, una validità assoluta, in quanto la realtà non obbedisce a leggi universali per le infinite possibilità offerte dal reale, la forma della conoscenza non può essere ch limitata e relativa. Di qui deriva anche la struttura del libro, in cui i ricordi si susseguono indipendentemente l’uno dall’altro, senza fondersi in un quadro complessivo e unitario. I Ricordi sono 221. La redazione del 1530 rappresenta l’approdo e la conclusione degli interventi correttivi di Guicciardini.
I Ricordi come “anti-trattato” e l’elogio del “particolare”
Il libro fornisce un ritratto completo e fedele dello scrittore. La frantumazione del reale determina una più difficile e sofferta tensione conoscitiva, alla quale corrisponde la struttura frammentaria dell’opera: i Ricordi sono una specie di “anti-trattato”, in quanto rinunciano a una compiutezza sistematica e totalizzante del discorso. La visione disincantata della realtà porta lo scrittore all’elogio del “particolare”, dell’interesse personale, come scopo ragionevolmente perseguibile dal savio. La ricerca del bene individuale è ben più che l’ansia di ottenere qualche pecuniario. Quelli che lo intendono così in realtà non conoscono bene quale sia il suo interesse. Le critiche che gli vennero rivolte quando difese Alessandro de’ Medici dinanzi a Carlo V e dopo l’uccisione di Alessandro, favorì l’elezione di Cosimo, erano a suo parere totalmente ingiustificate. L’interesse era quello di non rinunciare all’attività politica, essendo questo l’unico modo per poter giovare alla città. Il “particolare” sarà quindi da intendere come un elemento essenziale, una forma o una categoria della conoscenza necessaria per stabilire o meno l’opportunità dell’azione. 

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